Toni, il ragazzino legionario che finì ucciso in Indocina
Arruolato a forza dopo la fuga da casa restò intrappolato nella guerra

Con le scarpette leggere. Con pochi soldi e la medaglietta della Madonna datagli dalla mamma. E, negli occhi, il volto degli insegnanti che lo deridono anche quando si dimostra preparato. Così, nel maggio del 1952, Antonio Cocco lasciò Venezia per fuggire in Francia e andare, con lo spavaldo ottimismo dei suoi 19 anni, incontro a una nuova vita, lontana “dai sorrisetti” dei professori che lo avevano condannato alla bocciatura. Non poteva immaginare che quella nuova vita sarebbe stata nella Legione straniera, e che sarebbe finita due anni dopo in Indocina, sotto il fuoco dei partigiani vietnamiti. Perché l’arrivo da clandestino in Francia («dopo 28 ore di marcia, tra cui sei in un nevaio di notte con le scarpette e vestitino estivo, braccati dalla finanza che ci sparava dietro») gli costò subito l’arresto. E «il tenente mi disse queste testuali parole: “Hai due vie... o ti iscrivi alla Legione Straniera e rimani in Francia o ti rimpatriamo e ti dovrai fare 2 o 3 mesi di prigione” fece una bella pausa significativa e aggiunse “E credi poi che tuo padre ti riaccetterà a casa?” Comprendi bene che dinnanzi a questo non avevo molto da scegliere e accettai la Legione». Così lui stesso descrive la sua avventata scelta, in una lettera inviata al padre da Sidi Bel Abbes, quartier generale algerino della Legione, il 18 giugno 1952. Frammento di una delle oltre 160 lettere e cartoline spedite alla famiglia dalla sua odissea, dalla quale la diplomazia e i tribunali italiani non riuscirono a strapparlo. E che lui raccontò, con tutta l’assiduità consentita dalle sue condizioni, su fogli di carta di fortuna percorsi da caratteri spesso alterati dalla stanchezza e dal buio in cui era costretto a scrivere. Prima dall’Algeria, poi dalla nave che in quindici giorni di viaggio lo portò in Indocina. E poi, ancora, da varie località vietnamite, fino al 6 aprile 1954. Quando anche dal feroce assedio di Dien Bien Phu, tentò di rassicurare la famiglia, e forse se stesso, scrivendo: «me la caverò anche questa volta, ne sono certo pur ammettendo che se Dio non avrà misericordia di noi, sarà un vero massacro. Forse quando riceverai questa mia il pericolo sarà passato oppure... meglio non pensarci». Chissà cosa avrebbe voluto scrivere, Toni, mentre usciva da quella fortezza per salvare un compagno ferito ed essere mortalmente colpito, in un giorno imprecisato di un maggio in cui avrebbe potuto indossare nuovamente le scarpe leggere nella sua Venezia.
Le lettere, raccolte dalla famiglia, entrano ora a far parte dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e sono state scelte tra gli otto finalisti per il premio Tutino 2017. Quella di Antonio Cocco è una storia incredibile, che oltre a sottolineare la tragicità degli eventi che lo travolsero evidenzia la sordità della Francia a ogni appello che, da Venezia, il padre Luigi lanciava per farlo rientrare in Italia, arrivando persino, con la complicità di un Console, a deviare la rotta di una nave per favorire la sua fuga dal quartier generale algerino della Legione. Ma il tentativo fallì, e cadde anche nel vuoto l’ordinanza del Tribunale di Venezia che imponeva alla Francia di restituire immediatamente Toni (minorenne, secondo la legge italiana di allora) alla sua famiglia. «La Francia aveva bisogno di uomini per difendere le sue colonie» commenta amara la sorella Idania «ed eresse un muro impenetrabile sulla vicenda, di cui ancora non ci capacitiamo. Lui continuava a scriverci fiducioso di riuscire a tornare presto a casa, mentre mio papà sollecitava diplomatici, legali, tribunali e clero. Ma non servì a nulla». E Toni, impulsivamente buttatosi in una vicenda più grande di lui perché umiliato a scuola, divenne uno delle migliaia di italiani arruolati nella Legione straniera dopo essere emigrati clandestinamente in Francia. Uno delle migliaia di morti di una guerra non sua. «Ho insegnato per quarantadue anni» ricorda ancora Idania Cocco «e non c’è stato giorno in cui non ho pensato al peso che il comportamento non adeguato degli insegnanti ha avuto nella vicenda di mio fratello. Mio padre raccontava che il preside con cui parlò il giorno prima della fuga di Toni, annunciandogli la sua bocciatura, gli disse che “con i giovani irrequieti bisogna usare la frusta”. Ma Toni non era né stupido né svogliato, ma solo curioso e irrequieto». Aveva tre fratelli e sei sorelle, una madre estremamente devota e un padre intraprendente. La casa veneziana della famiglia era accanto a quella di Filippo de Pisis, con il quale i giovani della famiglia Cocco scherzavano in cortile. E se a scuola non era apprezzato, sono le sue lettere - che a parte qualche ingenuità grammaticale rivelano una prosa felice - a dirci che quei “sorrisetti dei professori” erano ingiustificati. Una delle sue sorelle, Mariella - scomparsa pochi giorni fa - nel cinquantennale della sua morte ha raccolto le lettere che fratelli e sorelle hanno letto e riletto molte volte, in questi anni, senza capacitasi di come sono andate le cose. Scoprendo anche che il padre, che quando arrivava una sua lettera radunava la famiglia per leggerla a voce alta, edulcorava le notizie, spesso drammatiche, soffermandosi sulla volontà di Toni di partecipare in qualche modo alla vita familiare, interessandosi ai matrimoni delle sorelle e agli esami dei fratelli, descrivendo al più piccolo di loro gli animali della giungla. «Son un privilegiato, perché ho una famiglia che mi segue e mi vuole bene», scrisse da uno dei suoi inferni. Era solo un ragazzo. Morto per la guerra di un Paese non suo, dov’era arrivato a piedi, con addosso le scarpe leggere della sua ultima primavera veneziana.
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