Tra i monti bellunesi Segato porta a casa “La pelle dell’orso”

PADOVA. Per il suo esordio da regista in un lungometraggio di fiction, Marco Segato ha deciso di fare l’esatto contrario di quanto consigliava Alfred Hitchcock, il cui monito era quello di non girare mai con animali e bambini. E invece il regista padovano, “l’uomo che ama(va) il cinema” - per citare il titolo del suo ultimo documentario - si è tuffato nelle pagine del romanzo di Matteo Righetto, nella sua storia di padri, figli e bestie spaventose ed ha realizzato “La pelle dell’orso”, un film universale e senza tempo che si lascia alle spalle il pesante fardello dell’autorialità per cercare di tanto in tanto una via di genere (a tratti l’horror, a tratti il western), non facile da percorrere per il cinema italiano. Una scommessa per tutti. Per Segato, anzitutto, che è riuscito ad allontanarsi lentamente dalla pagina scritta del romanzo per disegnare una montagna più dura e selvaggia alla ricerca di un equilibrio tra il racconto di genere, le suggestioni fantastiche di una vicenda immersa nella natura e l’intimità di un rapporto padre/figlio, con diverse dinamiche di conflitto che rimandano a una certa letteratura americana del secolo scorso, da London a Faulkner, passando per Rigoni Stern e per le memorie adolescenziali di “Stan by me” e di Tom Sawyer. Per la casa di produzione di Francesco Bonsembiante - la Jolefilm - che ha creduto in un progetto rischioso e articolato, anche in termini scenografici e con l’incognita di due orsi veri sul set fatti arrivare dall’Ungheria. E, infine, per Marco Paolini, il protagonista del film insieme al tredicenne feltrino Leonardo Mason, che interpreta un ruolo molto lontano dalle sue corde, per giunta sotto la guida di un regista esordiente.
Proprio Paolini, che in teatro ha fatto della parola la sua cifra artistica, nel film veste i panni di Pietro Sieff, un uomo indurito dalla vita, abituato a usare le sue mani nodose più per sferrare “svérgole” che carezze, chiuso in un silenzio che lo ha isolato da tutti e, in particolare, dal figlio Domenico, faccia piena da bambino ma una voce già incrinata da una sofferenza che nasce dall’assenza (di una madre e di abbracci che non ci sono più). Un uomo impermeabile alle emozioni come la maschera di legno che indossa all’inizio del film durante la “Gnaga” il carnevale del paese terrorizzato da “el diaol”, l’orso che sta uccidendo molte bestie nei dintorni (il film è stato girato nelle valli limitrofe a Forno di Zoldo e Fornasighe). «Lo ucciderò io», promette in un impeto d’orgoglio in osteria, condividendo il viaggio (fisico ed esistenziale) con quel figlio che nemmeno riconosce perché beve solo acqua anziché vino. Alla ricerca di se stessi prima ancora che dell'’animale. Evocativo e narrativo (con la licenza di un personaggio femminile, Lucia Mascino, forse non così necessario), classico ma con qualche suggestione di ambientazione, “La pelle dell’orso” ha un finale sobrio e asciutto che evita le ridondanze che pure una storia di formazione e di legami familiari poteva naturalmente portare in dote. Con una dedica finale a Carlo, nume tutelare di un film autentico ed equilibrato. Quasi epidermico, nell’accezione (a strati) che sarebbe piaciuta a Mazzacurati.
Il film uscirà in sala il 3 novembre ma già da domani (proprio da Padova alle 20.30 al Multiastra) comincerà un tour di anteprime che lo porteranno in giro per l'Italia dopo il successo raccolto ad Annecy e in altri festival internazionali. «Il film può andare male o essere un disastro. Noi puntiamo al primo obiettivo» scherza Segato con un po’ di scaramanzia. Ma lo dice sapendo di aver realizzato un’opera prima riuscita: di aver portato a casa la sua pelle dell’orso.
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