Una Semiramide tutta d’oro per il ritorno a casa dopo 26 anni

Semiramide di Rossini è un capolavoro. È un’opera lunga, drammaturgicamente complessa, che richiede cantanti tecnicamente agguerriti, che comprende estese pagine corali e orchestrali. Non sorprende che i Teatri fatichino a programmarla sovente. Ma in questo 2018, 150° anniversario della morte del compositore pesarese, a questo compito non poteva sottrarsi la Fenice, il teatro per il quale Semiramide fu scritta e dove debuttò il 3 febbraio del 1823.
Del resto, ventisei anni sono passati dal precedente allestimento del 1992 (Devia protagonista, regia di Pizzi). Per l’attuale produzione, in scena da venerdì scorso fino al 27 ottobre, è stato approntato un cast assai solido. La protagonista è il soprano Jessica Pratt, di casa a Venezia: qui ha cantato numerosissime volte. Ha dominato la sua parte con acuti argentei e padronanza assoluta della coloratura. La sua voce soave, mai truce, attenua la dissolutezza della regina babilonese ed è perfetta per “Bel raggio lusinghier”e “Al mio pregar t’arrendi”. Teresa Iervolino ha il colore giusto per Arsace, mezzosprano en travesti. Anche lei supera spavaldamente i tecnicismi pretesi da Rossini e duetta splendidamente con il soprano. In “In sì barbara sciagura” trova accenti accorati e intensi. Il basso Alex Esposito, anche lui ben noto ai veneziani, è vocalmente ineccepibile e inoltre attore magnifico, arrogante, perverso e delirante come dev’essere il regicida complice di Semiramide. Il basso Simon Lim è un autorevole e dolente Oroe. Il difficilissimo ruolo di Idreno è affidato al tenore Enea Scala, apparso in affanno nelle impervie tessiture che comporta. Il coro, preparato al meglio da Claudio Marino Moretti, è solenne, ieratico, inquisitorio e festante, con apprezzabile flessibilità. Prova maiuscola dell’orchestra e bene anche la banda interna.
Sul podio, Riccardo Frizza, alla sua quinta Semiramide in carriera, tiene saldamente in mano la fluviale partitura. Drammatizza la sinfonia con netti contrasti di tempo e dinamica, non risparmia sulla velocità per ricreare la ben nota “folie organisée” di Rossini. La regista Cecilia Ligorio chiede allo scenografo Nicolas Bovey di usare ampiamente il color oro, che appare nel velario, nell’inquadratura del fondale, nei praticabili, per dare l’immagine dell’opulenza e della brama di potere. E oro compare anche in alcuni costumi di Marco Piemontese. Per converso, dominano il nero e il buio nella parte notturna e sotterranea del secondo atto, quando stanno per sciogliersi i nodi della vicenda. Non ci sono connotazioni temporali: i misfatti appartengono ogni epoca. I due colpi di teatro – lo spegnimento del fuoco sacro e l’apparizione dell’ombra del re assassinato – sono risolti rinunciando ad eccessi di spettacolarità: un rovesciarsi di bacili e un riemergere dell’estinto da sottoterra in uno strano costume traslucido. Poi questo fantasma, anziché farlo scomparire, la regista lo mantiene in scena a lungo, quasi fosse il dominus tenebroso che guida le azioni dei personaggi, fino alla vendetta demandata ad Arsace. Al termine, dopo quattro ore di esecuzione, il pubblico si è attardato a lungo ad applaudire tutti i protagonisti di un’impresa così notevole. —
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