Un’altra vita oltre il suicidio La speranza dei sopravvissuti

In viaggio con lo psichiatra Diego De Leo nelle vicende di persone  che dopo aver cercato di morire hanno reso straordinaria la loro esistenza 
La vita dopo il suicidio. Quella che nasce quando la morte si distrae e regala, suo malgrado, una seconda occasione a chi, fino a quel momento, nemmeno sapeva di volerla. È in questo preciso istante che comincia la narrazione dello psichiatra Diego De Leo in “Un’altra vita. Viaggio straordinario nella mente di un suicida”. Una riedizione - che verrà presentata domani alla Feltrinelli di Padova alle 18 - che apre nuove finestre sulla speranza, ad esempio attraverso le storie di chi, miracolato, è tornato a vivere. Aggrappandosi a questa nuova esistenza, sulle spalle i segni tragici di una scelta - ustioni, menomazioni e dolore - bagaglio a imperitura memoria. Un cammino ancor più difficile eppure finalmente prezioso. «La prevenzione dei suicidi deve riguardare tutti, non solo gli specialisti» sostiene il professor De Leo, tra le altre cose, fino a qualche tempo fa direttore dell’Istituto australiano per la ricerca e la prevenzione del suicidio, che a questo tema ha dedicato la sua esistenza «quando ho scritto il libro ho riaperto il mio archivio fatto di storie, memorabilia e cimeli che le famiglie mi avevano lasciato e ho selezionato una dozzina di storie tra le vicende che in qualche modo si distinguevano, che rappresentavano temi e probabilità differenti tra loro, proprio perché, purtroppo, il suicidio si compie per cause e tragitti molto diversi. Del resto» prosegue «dei problemi sociali si parla ancora poco e male. Il fatto che si stigmatizzino molto non aiuta a fare prevenzione. Anzi: non è un caso che gli uomini siano quelli che si ammazzano di più, proprio perché vengono lasciati soli con il loro senso di vergogna e fallimento. E attraverso il silenzio sanciamo la mancanza di solidarietà».


Nella riedizione del testo trovano quindi posto nuove storie di persone che per puro caso sono sopravvissute al gesto fatale, magari dopo essersi buttate dal terzo piano o dopo essersi sparate. È capitato che un aspirante suicida cambiasse idea quando si era già lanciato nel vuoto e che un uomo ricevesse la visita del tutto inattesa del figlio chirurgo da New York dopo essersi avvelenato. Storie che segnano un nuovo limite all’eccezionalità. «Queste persone sono “formalmente” morte, nel senso che hanno compiuto il gesto estremo» prosegue lo psichiatra «e quando si ritrovano ad avere a disposizione “un’altra” vita, la affrontano in maniera completamente diversa. Nell’aspirante suicida la morte viene vissuta come una crisi e avvertita come necessaria. È come se il compimento della crisi restituisse una vita migliore. Ecco quindi che è importante trovare il modo di acquisire la crisi. È necessario trovare qualcuno che aiuti a gestire questo momento di passaggio senza che si compia. Perché chi si ammazza si sente profondamente solo».


Il libro presenta dati aggiornati, descrive come sono cambiate le categorie “sensibili”: se qualche decennio fa, ad esempio, erano i figli di separati, in seguito lo stigma è passato sull’omosessualità anche se, insiste De Leo «la verità è che siamo tutti a rischio perché prima o poi la vita può voltare le spalle a chiunque. Può arrivare un giorno in cui non è più degna di essere vissuta, o semplicemente troppo dolorosa e non c’è speranza di cambiamento. Fino a quando penseremo che il suicidio sia solo un problema limitato alle malattie mentali non aiuteremo nessuno».


A conferma della complessità della mente umana e delle strade tortuose che intraprende, la storia di Kathy, trentenne australiana che ha cercato la morte dandosi fuoco dopo essersi intossicata con i farmaci. Sopravvissuta dopo essere passata attraverso atroci sofferenze e con il 90% del corpo ustionato, oggi aiuta le persone a superare la “crisi”: «Kathy ha trovato la forza di riprendere in mano al propria esistenza dandole un significato diverso» racconta De Leo «del resto non c’è nessuno di più convincente di chi ci è passato, certi linguaggi non richiedono tecnicismi. E aiutare gli altri dà un enorme significato all’esistenza». Ma esempio di rinascita è anche la storia del quarantenne olandese che aveva deciso di mettere fine alla propria esistenza gettandosi sotto un treno. Sopravvivendo, incredibilmente, malgrado la perdita delle gambe. Oggi gira il mondo «per parlare con la gente e aiutare le persone» dice lo psichiatra «e con la sua sedia a rotelle salta letteralmente sui tavoli alle conferenze. È passato dall’essere una persona isolata ad essere socievole, sviluppando, da grande amputato, un rapporto empatico con gli altri».


Un’altra sezione del libro, anche questa con novità importanti, è quella dedicata all’altra faccia di questa spaventosa medaglia, ovvero alla testimonianza di chi sopravvive al suicidio di un congiunto. «Sono un centinaio di pagine nuove dedicate per lo più alle storie di mamme coraggiose, che dopo il lutto sono diventate divulgatrici, come la figlia di Amedeo Nazzari o Stefania Casavecchia» aggiunge. Vicende che portano con sé l’interrogativo più doloroso per chi resta: avrei potuto accorgermene? «I segnali di pericolo, purtroppo, sono interpretabili solo dopo» assicura lo psichiatra «perché non sempre la vita rende possibile seguire chi amiamo con l’attenzione necessaria a rendersene conto. Ci sono il lavoro, mille incombenze, l’esistenza è complicata e i figli possono essere lontani, chiedono spazio. Ci sono comunque dei campanelli d’allarme importanti che sono nel cambiamento dell’igiene, dei comportamenti, nella rinuncia alle abitudini più piacevoli».


In questo mondo la sfida è quella di restare permeabili all’altro. Che non si trova necessariamente sul cornicione di un palazzo. Anche De Leo, qualche anno fa, ha guardato in faccia l’abisso: «Quando i miei due figli sono morti in un incidente d’auto ci ho pensato moltissimo. Devo la vita agli amici che hanno “adottato” me e mia moglie. Per lunghi periodi ci hanno accuditi in tutte le necessità di base, ci ricordavano di mangiare e di prenderci cura di noi stessi. Sono la solidarietà e il sostegno che fanno una comunità e sono queste le cose più importanti. Spesso trascurate».


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