Vengono dall’arte le idee per rivalutare il patrimonio delle chiese chiuse

Chiuse o dimenticate? Sconsacrate o dissacrate? Abbandonate o diroccate? Insomma: come stanno le chiese non più utilizzate per il culto? Se ne parla oggi alle 15.30 a Treviso, alla chiesa di San Teonisto, grazie al seminario pubblico “Ri–abitare le chiese chiuse. Patrimoni, nuovi usi, paesaggi”, organizzato da Fondazione Benetton Studi Ricerche e Università Iuav di Venezia, a cura di Luigi Latini e Sara Marini. Dopo i saluti di Marco Tamaro, direttore della Fondazione Benetton, e di don Paolo Barbisan, direttore dell’Ufficio diocesano per l’arte sacra e i beni culturali, sono previsti gli interventi di Luigi Latini e poi di Sara Marini con Micol Roversi Monaco, Elisa Monaci e Andrea Pertoldeo dell’Università Iuav di Venezia, quindi di Luigi Bartolomei dell’Università degli Studi di Bologna e di Leonardo Servadio, giornalista di Avvenire.
Chiuderà il pomeriggio (alle 18.30) un incontro pubblico con Tobia Scarpa, architetto che ha firmato il recente intervento di recupero della chiesa di San Teonisto.
Sarà, quindi, una discussione corale sugli scenari urbani e culturali riguardanti la dismissione e la nuova vita di chiese abbandonate, chiuse, riutilizzate nei modi più disparati: un fenomeno sempre più evidente ma non ancora indagato sistematicamente, anche se sia la Santa Sede sia le Università vi stanno dedicando studi specifici.
Basti pensare proprio alla sede dell’appuntamento, la trevigiana San Teonisto, dimenticata per decenni a partire dal secondo dopoguerra, divenuta luogo di cultura in grado di ospitare eventi di respiro internazionale. Oppure alla chiesa Santa Croce alla Giudecca, che ora sta accogliendo i depositi delle Galleria dell’Accademia. O, sempre a Venezia, a San Gregorio, che diventerà la nuova sede del Museo Orientale, e a San Lorenzo – entrata di diritto nella storia della progettazione architettonica internazionale grazie all’arca che Renzo Piano vi realizzò all’interno nel 1984 per l’esecuzione del “Prometeo” di Luigi Nono – che la Fondazione Thyssen-Bornemisza sta restaurando per realizzare nuovi spazi espositivi, museali e di ricerca, in virtù del comodato d’uso concesso dal Comune.
Un numero che cambia
Perché se la secolarizzazione allontana i fedeli dalle chiese e la diminuzione del clero priva di vitalità molti luoghi di culto, loro continuano a sopravvivere ai secoli e all’abbandono, anche se spesso chiuse o attraversate solo da turisti estranei ai significati dell’edificio sacro, e sono dunque numerosi gli aspetti simbolici, architettonici, paesaggistici e normativi relativi alle prospettive di riutilizzo dei numerosi luoghi di culto dismessi, sia in Italia sia in tutta Europa.
Sara Marini, docente di Composizione architettonica e urbana dell’Iuav, da alcuni anni si occupa del problema delle chiese chiuse di Venezia, dove il fenomeno assume connotazioni particolari. «Sono una trentina le chiese chiuse di Venezia» afferma «anche se il loro numero è mutevole: ho iniziato questa ricerca nel 2014 e da allora la situazione è già cambiata. Sono edifici che hanno differenti proprietà – alcune sono della Chiesa, altre del Comune, di Enti o di privati – e diverse condizioni: ve ne sono di consacrate e di sconsacrate; alcune sono abbandonate da anni ma in buono stato mentre altre sono in evidente degrado, ma ci sono anche quelle recentemente restaurate. Sono accomunate dal non ospitare più la funzione per la quale sono state costruite e dal fatto che la loro porta è chiusa, temporaneamente chiusa o solo saltuariamente aperta».
Continua Marini: «Venezia è una città che oltre a porre il problema del recupero di queste chiese, uniformemente distribuite nei sestieri, suggerisce quello della gestione. La loro vocazione è quella di accogliere esposizioni, concerti o altri progetti culturali in una città con sempre meno abitanti e spazi per i cittadini. Attraverso concessioni temporanee a scopo oneroso, poiché nessuno di questi manufatti è in vendita, le chiese possono ospitare funzioni compatibili con la loro condizione monumentale riempiendone l’attuale vuoto. Insediando usi, anche in strutture temporanee e removibili che rispettino la composizione architettonica e i decori originari, è possibile riaprire questi luoghi alle comunità». —
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