«Vi racconto i Giganti italiani perbene che fanno bene all’Italia»

Esce il nuovo libro di Stefano Lorenzetto, il giornalista che ha fatto dell’intervista un’arte (e un record mondiale)
Di Anna Sandri

di Anna Sandri

Stefano Lorenzetto, fare un’intervista a lei è come pretendere di entrare in vasca e fare i 200 stile con la Pellegrini. Lei è il giornalista dei record.

«Per le mie interviste, è vero, sono entrato nel Guinness: nessun altro giornalista ha tenuto una rubrica come la mia “Tipi italiani” per così tanto tempo e senza soluzione di continuità in nessun giornale al mondo. Mi sono fermato a 769, ho battuto il record cinque volte».

Questi sono i numeri. Prima viene il genere. Perché proprio l’intervista?

«Una nemesi. Quando ero al Nuovo Veronese, un giornale di cui ero tra i fondatori, tutti i collaboratori mi portavano interviste. Collaboratori bravissimi, basti pensare che tra loro c’era Piera Detassis, che sarebbe diventata direttore di “Ciak”. Io mi arrabbiavo: ma la finite con queste interviste? Possibile che tutti abbiano qualcosa da dire? È andata come sappiamo».

E prima ancora, viene la qualità.

«Negli ultimi 17 anni mi sono dedicato a un’unica missione: non annoiare i lettori. Le mie interviste uscivano la domenica sul “Giornale”, ed erano sempre corredate di fotografie. Le fotografie sono importanti, gli italiani preferiscono guardare che leggere. Ecco, io volevo che non vedessero facce note, e gli venisse voglia di leggere. Volevo sorprenderli con quello che è il nocciolo del mestiere, la notizia. Che, se andiamo alla radice, vuol dire novità».

E dove le andava a cercare queste novità?

«Il più delle volte le trovavo proprio leggendo i giornali. Una riga in una pagina, una breve che per me era una storia. Una citazione magari senza il nome del protagonista. Partivo da lì».

E poi? Partiva letteralmente o si attaccava al telefono?

«Tutte le interviste le ho fatte faccia a faccia, tranne due. Con l’entomologa Paola Magni, che attraverso gli insetti lavorava a gialli irrisolti e che aveva lasciato l’Italia per l’Australia, e con Delfo Zorzi, che era a Tokyo. Abbiamo usato Skype. Tutti gli altri li ho raggiunti di persona».

Penna o registratore?

«Registratore sempre. Due terzi del parlato è perduto, perché è su nastro. Il terzo, più recente, copre 1.098 ore di domande e risposte, 45 giorni di conversazione. Registrare frena l’istinto della smentita: l’intervistato sa di essere registrato, non potrà mai sostenere di non aver detto una cosa che entrambi sappiano essere stata detta. Però anche la penna, per fissare i punti importanti».

Come si affrontano gli interlocutori? A braccio, a sensazione, con domande già pronte?

«Con molta preparazione. Prima di fare un’intervista mi documentavo. Arrivavo con una lista di cento domande».

Però le sarà capitato di andare dove la portava il cuore.

«Mi è capitato di essere coinvolto in modo molto profondo. Penso a Andreana Bassanetti, psicoterapeuta di Parma la cui figlia si suicidò per depressione, e che dopo la tragedia ha iniziato ad aiutare altri genitori che hanno perso, in qualsiasi modo, un figlio. Ne ha aiutati decine di migliaia al mondo, non dimenticherò mai come mi descrisse la bellezza della figlia stesa sulla rampa d’asfalto dopo un volo di sette piani, mentre le regalava un ultimo sorriso e le rivolgeva le ultime parole. “Aspetta tre giorni”, il tempo tra la Passione e la Resurrezione».

E nella memoria, qualcuno è rimasto più di altri?

«Per raggiungere Mario Dumini, il figlio dell’uomo che uccise Matteotti, ho dovuto camminare nella boscaglia, a San Vittorino vicino a Roma, senza sapere dove sarei arrivato, chi e cosa avrei trovato. Non ci era mai arrivato nessuno. Però mi ha accolto, l’ho intervistato. Vive come un eremita, forse vuole scontare la colpa del padre».

Qualcuno le avrà pur detto di no, in tutti questi anni.

«Solo due. E uno dei due non mi ha spiegato perché. Un libraio di Reggio Emilia, che leggeva tutti i libri, correggeva gli svarioni con la matita rossa e blu, e li metteva in bella vista in vetrina. Mi ha detto no, credo perché scrivevo per “Il Giornale”».

Parte delle sue interviste sono raccolte nel suo nuovo libro. Ma chi sono, alla fine, i “Giganti”?

«Sono quelli che rappresentano le migliori qualità degli italiani e di questo Paese. L’Italia è un faro per la civiltà, anche se noi ce lo siamo dimenticato. Ho cercato e raccontato persone perbene, e che fanno il bene».

Lorenzetto si nasce o si diventa?

«Io sono figlio di genitori umili, papà calzolaio e mamma casalinga. Assieme ai valori, mi hanno trasmesso un gene. Quando lavoravo a Panorama cercavano un volontario per provare il genoma, la mappa che ti dice come va a finire la tua vita. Tutti scappavano impauriti dalla sentenza, io mi sono offerto. Ho scoperto tre cose: non morirò di cancro, non avrò l’Alzheimer, e ho una variante genetica che, c’è scritto nel referto, indica una “spiccata predisposizione all’intelligenza emotiva e alla socievolezza”».

Più uomini o più donne?

«Più uomini. Troppi, considerando che penso, parafrasando Barbarani, che siano loro a portare il peso del mondo»

Le sue interviste erano intere paginate.

«18 mila battute, poi, con la riduzione del formato, 12 mila. Un gran lavoro di cesello: la pagina la consegnavo completa di tutto. Non volevo errori, e volevo fare io il titolo. Mai modificare il pensiero dell’intervistato, ma usare un buon italiano. La sintesi. Il lavoro di cesello è fondamentale. Non a caso la Saliera di Cellini sta in un museo».

Come si fa ad avere un’intervista pronta per 769 domeniche di fila?

«Prima regola, come diceva Enzo Biagi, mai tornare a mani vuote da un servizio. Seconda, ne avevo sempre tre o quattro pronte. Qualche stop in 16 anni l’ho subito, ma i lettori non se ne sono accorti».

Si sono accorti che se ne è andato?

«Io sarei rimasto, ma si sa com’è. Anzianità professionale, tagli, pensione. Ho seguito per un po’ i dati di vendita. Dopo sette settimane la domenica faceva segnare un meno 13 mila. Non dico mica che sia per me: magari fuori c’era il sole. O pioveva».

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