Giro d’Italia, un tributo alla nostra storia

Il Piave e il Tagliamento, il Grappa e l’altopiano: passaggi-omaggi al passato lungo la corsa rosa

Francesco Jori
La folla sul Muro di Ca' del Poggio
La folla sul Muro di Ca' del Poggio

Chissà se in questo weekend, pedalando lungo le strade venete e friulane del Giro, lo sloveno Primoz Roglic e l’italiano Antonio Tiberi sono stati anche solo sfiorati dal pensiero che un secolo fa, in questi luoghi, i loro bisnonni si sono combattuti dai fronti opposti della Grande Guerra.

Sui fiumi, per cominciare: il Piave, anzi la Piave più di ogni altro, cui il grande giornalista Giorgio Lago ha dedicato l’incisiva immagine di «un fiume cippo, una golena del ricordo».

Qui da Caporetto alla vittoria correva il confine tra il Nordest occupato e il resto d’Italia, nel lunghissimo e devastante “anno della fame”, in cui la mancanza di cibo ha provocato una strage di civili. Qui è arrivato dodici mesi dopo il riscatto di una nazione che pareva distrutta.

E poi, il Tagliamento che nei drammatici giorni della rotta dopo Caporetto ha subìto l’assalto di decine di migliaia di soldati sbandati e di civili in fuga dalle truppe austroungariche: non pochi dei quali morti annegati nelle sue acque. Per finire l’Isonzo, teatro di dodici drammatiche battaglie, dal giugno 1915 al novembre 1917, con decine di migliaia di vittime quasi tutte giovanissime; e una legione di quasi un milione di profughi che cercavano uno spiraglio di sopravvivenza lungo quelle stesse strade oggi percorse dai ciclisti del Giro.

Poco più in là, una Gorizia divenuta in questi mesi teatro di pace tra due Europe per decenni divise dalla cortina di ferro; ma che comunque reca impresse nella memoria collettiva le cicatrici di una guerra che l’intera città ha subito come nessun’altra, tra il giugno 1915 e l’ottobre 1917: crivellata dalle bombe prima italiane e poi austriache; evacuata quasi del tutto, passando dai 30 mila abitanti di prima del conflitto agli appena 3 mila asserragliati nelle loro case in condizioni disperate.

“Si è aperto l’inferno con tutti i suoi orrori”, ebbe a dire il coraggioso vescovo di allora Francesco Sedej. Il ricordo oggi è proposto nel Museo della Grande Guerra di Borgo Castello, che documenta in un’apposita sala le sofferenze dei civili, sia i profughi che i rimasti: una ferita mai più risanata, e da subito denunciata, già in pieno conflitto, da una delle più urticanti canzoni popolari contro la guerra: «O Gorizia tu sei maledetta / per ogni cuore che prende coscienza / dolorosa ci fu la partenza / e il ritorno per molti non fu». Vissuta dai vertici italiani come una sorta di arma puntata contro di loro («qui si muore gridando assassini», recita uno dei versi più brucianti); al punto che chi era sorpreso a intonarla veniva passato per le armi.

Infine, il tributo del Giro alla Grande Guerra non poteva non estendersi ai due luoghi-simbolo del massiccio del Grappa e dell’altopiano di Asiago: tutt’oggi testimoni silenti di un massacro che da allora accoglie nel Sacrario Militare del Grappa i resti di 12.615 caduti italiani e 10.255 austriaci, la stragrande maggioranza dei quali rimasti senza nome; e nel Sacrario di Asiago quelli di oltre 50 mila vittime sui due fronti.

I ciclisti hanno risalito le pendici della leggendaria montagna pedalando lungo la Strada Cadorna, fatta realizzare dal comandante delle truppe italiane per portare uomini e mezzi sulla cima: luoghi marchiati tra il 1917 e il 1918 dai due grandi eventi della battaglia di arresto e di quella del solstizio, da un’Italia in ginocchio a una rialzata in piedi. E intorno gli scenari dell’Asolone, del Pertica, del Palon, del Tomba, teatri di epici scontri.

Infine, l’altopiano di Asiago, un autentico museo della Grande Guerra a cielo aperto: dai forti Corbin, Interrotto, Verena, Campolongo, ai chilometri di trincee in cui si moriva a grappoli per strappare al nemico qualche centinaio di metri di terra; fino alla sequenza dei cimiteri di una guerra in cui un’intera generazione di giovani dell’una e dell’altra parte è stata sterminata.

E le migliaia di civili che sotto la mazzata della Strafexpedition austro-ungarica hanno dovuto abbandonare tutto ciò che avevano per sfollare in pianura: «ghéber dehùn so stérban net», piangevano nel dialetto cimbro. Andiamo via per non morire. Una condanna a vita comunque.

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