I numerosi tasselli del puzzle mediorientale
Nemmeno un sofisticato algoritmo politico riuscirebbe facilmente a venire a capo del complicato accordo sul cessate il fuoco e lo scambio ostaggi/prigionieri tra Israele e Hamas

Il Medio Oriente attende l’ennesima missione di Blinken: a dimostrazione della difficoltà di Washington di incastrare i tasselli del complicato accordo sul cessate il fuoco e lo scambio ostaggi /prigionieri tra Israele e Hamas e, contemporaneamente, far marciare l’ipotesi dei “due Stati”.
Su entrambe le vicende gravano i veti dei principali attori del conflitto. Netanyahu, che si oppone a una “tregua a tutti i costi”, ribadisce che non intende «mettere fine alla guerra, ritirare le truppe da Gaza, rilasciare migliaia di terroristi».
Esattamente l’opposto di quanto si propone Hamas. Sul dopo le distanze sono ancora più grandi: la destra messianica israeliana, già decisa a opporsi al “cedimento” sulla tregua e uscire in tal caso dal governo, non vuole nemmeno sentire parlare dei “due Stati”.
Anzi, punta a estendere la colonizzazione in Cisgiordania con ogni mezzo: tanto da indurre Biden a sanzionare alcuni dei leader dell’organico movimento dei coloni.
Cambio di passo che solleva le ire di Bibi. E reclama addirittura il “ritorno a Gush Katif,” il nome ebraico degli insediamenti di Gaza evacuati da Sharon nel 2005. Viene, dunque, al pettine la natura politica della maggioranza che sostiene l’esecutivo Netanyahu, unita da una visione annessionista: per il Likud, in nome della sicurezza; per i messianici, in nome della religione.
Per i secondi solo il possesso dell’intera Eretz Israel biblica consente il ritorno della diaspora nella Terra di Israele e, di conseguenza, l’avvento della Redenzione che essi, contrariamente alla passiva tradizione attendista del mondo ultra-ortodosso (haredim), si propongono di accelerare.
Nella concezione delle due destre non solo non c’è spazio per Hamas - fautore di uno stato palestinese dal Giordano al Mediterraneo,“dal fiume al mare” secondo una rappresentazione geopolitica che esclude l’esistenza di Israele - ma nemmeno per l’Anp.
Bibi non vuole irritare gli alleati, perché mira a rimanere in sella sino all’autunno del possibile ritorno alla Casa Bianca di Trump, sul quale il premier conta per restare al potere.
Nel frattempo cresce l’isolamento politico di Israele: prima la Corte dell’Aja, ora un documento “ transatlantico” sottoscritto da 800 funzionari americani ed europei, diplomatici ed esperti di intelligence, criticano duramente le modalità con cui è condotta la campagna a Gaza.
La strategia Usa incontra difficoltà anche perché presuppone la messa ai margini degli attori politici dominanti nei rispettivi panorami interni.
Sull’efficacia della pressione a stelle e strisce pesano, poi, altre variabili: come il ruolo delle potenze regionali alleate e ostili, che intendono dire la loro su scelte che sarebbero obbligate a gestire o subire.
Non da ultime, influiscono le presidenziali Usa, dove settori di elettorato etnico o religioso sensibile a quanto accade in riva al Mediterraneo, possono fare da ago della bilancia tra i due contendenti. Un puzzle così complesso che nemmeno un sofisticato algoritmo politico riuscirebbe facilmente venirne a capo.
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