«Attacco sui social a Benetton? I messaggi di cordoglio innescano la bile digitale»

«È morto #Benetton pochi mesi dopo la strage di #Genova a volte la giustizia divina o il destino se preferite, ci manda segnali più eloquenti di quanto sappiamo fare noi umani». È solo uno dei tanti tweet, per comodità il primo che esce mettendo hashtag Benetton. Non è il più spiacevole e atroce. È certamente un pensiero che mai dovrebbe balenare nella mente di una persona. E se balena non dovrebbe, per creanza, essere reso pubblico. Ma tant’è, la campagna di odio belluino che ha investito la famiglia degli imprenditori trevigiani non si è fermata neppure di fronte alla più tragica e definitiva delle esperienze umane: la morte.
Con Giovanni Boccia Artieri, docente di sociologia dei media digitali all’Università Urbino Carlo Bo, abbiamo cercato di analizzare e capire il perché di questo rigurgito di odio nei confronti di una persona ormai defunta.
La famiglia Benetton è stata ritenuta colpevole del disastro di Genova. Senza aspettare il verdetto di un giudice. Ma nessuno di loro è accusato di alcunché, nel solco dell’oggettività nei loro confronti la campagna d’odio non ha superato la soglia limite?
«Questo è un classico caso di forma di hate speech on line, di e-bile, è un termine inglese non traducibile se non come bile digitale. È una modalità di comunicazione che raccoglie diversi tipi di istanze e sfoga i malumori delle persone collegandole direttamente o indirettamente a eventi tragici. Come il caso del crollo del Ponte Morandi. I sentimenti negativi si raccolgono attorno a simboli che rappresentano élite e che sono ritenute responsabili per un evento tragico».
Ma cosa innesca reazioni a catena di questa portata?
«Purtroppo nel momento in cui si scatena un’attenzione attorno ad un hashtag si tende a produrre conversazioni per stare nel presente dell’attualità. E succede che riprendendo anche frasi ironiche, graffianti o satiriche questo poi sfoci nell’insulto».
Perché un messaggio ironico viene deviato nell’offesa?
«Non è detto che questo avvenga. Sul caso Gilberto Benetton se si studiano i tweet diventati virali si scopre che magari sotto c’è chi si scaglia contro l’autore dell’insulto. Il fatto è che il messaggio negativo o che colpisce abbia un impatto più forte del messaggio positivo. Spesso si commentano questi tweet solo per esigenze di natura espressiva dell’individuo. Per sentirsi parte della retorica della giornata».
La retorica della giornata della morte di Gilberto Benetton cosa ha prodotto?
«Abbiamo fatto una analisi qualitativa e non quantitativa. Quindi non abbiamo studiato il numero dei messaggi o post su Facebook, ma abbiamo visto come si è mosso il flusso. C’è una prima ondata di cordoglio, questa ha innescato il momento di e-bile e si è conclusa con le prese di distanza».
Ma la percezione è che ci sia stato un attacco social alla memoria di Benetton però?
«Questo avviene perché l’insulto, come spiegavo, la battuta spiacevole e sgraziata colpiscono di più del messaggio di cordoglio. Ma a guardare la qualità dei commenti non c’è stata una prevaricazione dell’odio rispetto al cordoglio. Tanto che i due sentimenti non si sono polarizzati. Per quanto l’hashtag Benetton sia entrato in trending topic, nelle prime posizioni, non c’è stato un hashtag denigratorio o di difesa ad hoc. La bile elettronica si è innestata nel flusso normale di cordoglio on line. La tendenza non si è colorata».
Nella discussione on line è mancata la voce di opinion maker.
«Perché non c’è uno schieramento chiaro pro o contro e quindi le conversazioni non si polarizzano e gli opinione».
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