Autostrade e Benetton: Gianni Gajo, fondatore di Alcedo, «Linciaggio ingiusto, per loro parla la storia»

Intervista al fondatore di Alcedo Gajo, che ricorda: «Quando lo stato privatizzò le Autostrade, nessuno le voleva»
 
TREVISO. «Non so se questo linciaggio sia orchestrato o meno. Ma i Benetton non lo meritano, per quanto hanno fatto». Gianni Gajo, fondatore di Alcedo, curriculum denso delle imprese artefici del mito Nordest (iniziò alla Chiari & Forti) non ci sta, sul riassetto non...spontaneo di Atlantia. «Un compromesso, mai i Benetton avrebbero aderito se non costretti», dice, «Forse non è ancora finita, ancora c’ chi vuol estrometterli dalla società, oltre che dalla gestione».
 
Tecnicamente è una nazionalizzazione.
 
«I precedenti dello Stato, vedi Alitalia, non mi lasciano tranquillo: lo Stato non gestisce meglio del privato. E gli ultimi governi? Pessimi. Mi chiedo preoccupato: come sarà Autostrade fra 5 anni? Non credo migliore».
 
Sulla concessione autostradale sono state le condizioni ad innescare le polemiche. Oltre a quanto è emerso sulle manutenzioni.
 
«Sulle condizioni, che colpa hanno i Benetton? Quando lo stato privatizzò le Autostrade, nessuno le voleva. E scusate, fra venditore e compratore chi detta le condizioni? Il cerino è di chi vende, non si possono incolpare i Benetton per le condizioni. Casomai lo Stato».
 
Fa l’avvocato difensore?
 
«I Benetton non ne hanno bisogno. Per loro parla la storia. Sono ancor più vicino oggi alla famiglia, certo a Luciano per ragioni di età. Il trattamento cui sono sottoposti è ingiusto e fazioso».
 
Italiani ingrati?
 
«Smemorati sicuro. Diceva Montanelli: i più perfetti contemporanei. Non ricordano mai nulla»
 
Cosa ricordare allora?
 
«Che i Benetton hanno fatto la storia dell’impresa italiana, nel ’900. Su innovazione e nuovi mercati hanno creato modelli, l’università di Tokyo li studiava fra anni ’70 e ’80. Il loro marchio era fra i primi dieci, se non cinque, al mondo. E chi come loro ha saputo andare avanti all’unisono, in quattro fratelli? Un’alzata di sopracciglio, e si capivano. Hanno guadagnato tanto, vero, ma hanno sempre reinvestito: agricoltura, immobili, infrastrutture».
 
Erano i colossi del tessile, allora. Storia antica
 
«Ma anche la loro diversificazione è stata un modello. Per questo vantano manager di altissimo profilo, perché hanno in curriculum esperienze straordinarie offerte dal gruppo: Mion su tutti, Cerchiai, Bertazzo, Tondato».
 
È vero che Gilberto aveva un ruolo quasi alchemico, nel tenere coesi i fratelli? 
 
«Forse sì. Poco appariscente, ma il più strategico, senza togliere nulla agli altri. Teneva le fila di un sistema complesso, avevano oltre 100 mila dipendenti nel mondo. Ma loro si dividevano perfettamente i compiti».
 
La tragedia è stata uno spartiacque. E la reazione dell’azienda di fronte a quei morti ha fatto parlare. 
 
«Può darsi. Ma chi lo ha detto che di fronte a simili drammi si conservi lucidità e reazione adeguate? Errori li fanno tutti, anche Napoleone ha sbagliato, non si fanno sempre le cose giuste»
 
Prima parlavano delle manutenzioni. Sul dramma del ponte, cosa pensa?
 
«Errori e responsabilità, eventuali omissioni e condotte vanno appurate e perseguite, chi ha sbagliato pagherà. Ma i Benetton sono i principali azionisti, e hanno sofferto per quei morti».
 
Il riassetto darà ai Benetton nuove risorse, ma ridurrà i ricavi di due terzi. Nascerà la diversificazione 2.0 della seconda generazione?
 
«Presto per dirlo. Il sistema Benetton ha sempre mostrato vivacità: ma pesano la crisi del tessile, che ha colpito tutto il mondo, la tragedia, il Covid, la variegata successione. Penso che il sistema abbia tutte le competenze e le risorse per continuare la storia di grandi successi. E un momento delicatissimo».
 
E c’è un “patrimonio” Benetton a Treviso.
 
«Un dono straordinario, quello della famiglia, di cui la città deve essere fiera».

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