Berlinguer 1984-2014, il ricordo di Zanonato: "Questione morale, regola inascoltata"

PADOVA. Enrico Berlinguer, il segretario del Pci che rompe il legame con Mosca, sceglie la Nato come ombrello militare, indica la strada del compromesso storico per il governo del Paese, muore a Padova trent’anni fa: la sera del 7 giugno 1984 viene stroncato da un ictus mentre parla dal palco di Piazza dei Frutti e dopo 4 giorni di agonia in ospedale il suo cuore cessa di battere. L’Italia si ferma. A Padova arriva Sandro Pertini, il Presidente-partigiano che veglia sulla bara di Berlinguer e lo saluta con le lacrime e l’affetto che solo un padre ha verso un figlio. Quelle mani tese segnano la fine di una stagione, l’utopia del compromesso storico, il patto tra forze comuniste e cattoliche per portare l’Italia fuori dalla crisi economica e sconfiggere il terrorismo.
Le Br con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, fanno implodere la Dc e il governo di solidarietà nazionale guidato da Andreotti e il Pci deve cambiare passo: il compromesso storico lascia il posto all’alternativa di sinistra ma Alessandro Natta non riesce a tenere testa a Bettino Craxi che con Forlani e l’eterno Giulio lancia il Caf, con il segretario socialista leader incontrastato di un’ Italia che prova a correre al ritmo del dopoguerra per schiantarsi poi nelle inchieste di Tangentopoli 1 del 1992.
Nella storiografia Enrico Berlinguer entra di diritto, assieme ad Antonio Gramsci, come uno dei grandi protagonisti della sinistra italiana del Novecento che ha lasciato come eredità una regola di vita mai applicata: la questione morale, l’onestà di chi assume una carica pubblica. Bastava una comunicazione giudiziaria per essere cacciati dal Pci. Oggi, a destra, a sinistra e al centro c’è chi invoca il garantismo anche quando scattano le manette.
Cosa ricorda Flavio Zanonato, dell’ultima giornata di Berlinguer a Padova?
«Enrico arriva in auto da Genova, lo aspettiamo al casello di Padova Est e lo portiamo al Plaza, dove pranziamo: con lui ci sono Antonio Tatò, Ugo Baduel, Franco Busetto, Gianni Pellicani ed io, a quel tempo segretario della federazione padovana. Poi va a riposare e si scrive il discorso, compresa la fase finale, quell’implorazione: «andate tutti casa per casa, azienda per azienda».Verso le 5 del pomeriggio c’è un incontro con gli operai della Galileo guidati da Silvio Finesso, che compare nel film di Veltroni “Quando c’era Berlinguer”. L’azienda di Battaglia Terme era stata acquistata dai francesi della Merlin Gerin, gli operai non volevano che venisse scorporato il ramo carpenteria da quello degli interruttori, ma alla fine il piano industriale è passato con l’ok del governo».
Arriva l’ora del comizio, alle 9 di sera: che succede sul palco di piazza dei Frutti?
«La videoregistrazione del comizio l’ho voluta io con Leopoldo Zanetti della Target, primo caso in Italia, e ora quello è un documento storico eccezionale. Quando Berlinguer ha i primi conati di vomito Giuliano Lenci, medico, sale sul palco e Tatò ci rassicura: ha mangiato troppo, state tranquilli, non ha nulla di grave. La gente lo incoraggia con un applauso ma poi grida «basta-basta-basta».Il suo volto è sfigurato dal dolore, ma lui vuole finire il comizio e si accascia sul palco. Con un’Alfetta della Digos lo portiamo all’hotel Plaza dove arriva Lenci che gli fa il test “babinski” sulla pianta del piede e ci dice: Berlinguer ha avuto un’emorragia cerebrale. Lo portiamo con l’ambulanza a Neurochirurgia dove lo opera il professor Mingrino. Da quel momento scatta una straordinaria veglia popolare: non c’erano i telefonini, ma il passaparola. Migliaia di persone davanti all’ospedale giorno e notte. Da Roma arriva Ugo Pecchioli, poi Nilde Iotti e anche il presidente della repubblica Pertini, che si riporterà a Roma in aereo Enrico Berlinguer».
Cosa resta della lezione di Berlinguer sulla questione morale con la denuncia della lottizzazione, dell’occupazione delle poltrone da parte dei partiti? Il messaggio è sempre attuale, ma inascoltato.
«Berlinguer è il simbolo della politica pulita, dell’onestà. La sua battaglia contro la corruzione è rimasta inascoltata e ne stiamo pagando le tragiche e pesantissime conseguenze, come dimostrano le inchieste di questi giorni. Per sconfiggere la corruzione ci vuole una grande mobilitazione morale e popolare, come contro la mafia. Berlinguer aveva denunciato la lottizzazione sistematica dei posti di potere da parte dei partiti, anticamera dei fenomeni corruttivi che la magistratura porterà a galla qualche anno dopo».
Cosa resta dell’eredità politica: il compromesso storico rappresentava l’incontro della cultura comunista con quella cattolica. Lei crede che Veltroni con la nascita del Pd ne abbia realizzato la sintesi?
«Il compromesso storico è morto con il sequestro Moro, ma l’incontro di due grandi culture politiche e ideologie opposte, quella comunista e quella cattolica, è stato realizzato con la nascita del Pd di Veltroni, che rappresenta la sintesi migliore di quel messaggio e di quei valori. L’austerità, la lotta agli sprechi, la difesa della legalità, la giustizia sociale e il rispetto delle idee degli avversari sono scritti nello statuto del Pd».
Grillo ha detto che il MS5 è l’erede della lezione morale di Berlinguer e Renzi gli ha risposto che prima di fare quel nome si deve sciacquare la bocca: lei cosa dice a Grillo?
«Grillo è un buffone e un despota, non sa cosa sia un partito e la democrazia. Decide tutto lui da solo sul web. Non ha mai letto nemmeno una riga di Berlinguer, offende gli avversari e li insulta con una dialettica eversiva. Il Pci di Berlinguer è stato un grandissimo partito popolare, che discuteva nelle sezioni di tutt’Italia».
Giorgio Gaber disse che «Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona» e lo stesso concetto lo ripete anche Jovanotti nel film-documentario di Veltroni: lei perché scelse il Pci da ragazzo?
«Mi sono iscritto al Pci perché «ero convinto che il mondo, anche questo terribile, intricatomondo di oggi, può essere conosciuto, interpretato, trasformato e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita». Queste sono le parole che più mi hanno colpito di Enrico Berlinguer. Quando è morto in ospedale a Padova, mi hanno consegnato i suoi vestiti e mi sono stupito per lo stile di vita: i pantaloni erano lisi, sembravano il saio di un francescano. La politica come missione e servizio, senza lussi e privilegi».
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