Bossi: referendum per la secessione
«Non c'è più democrazia, come si fa a restare in questo schifo di Paese?»

Umberto Bossi sul palco del raduno leghista a Venezia
VENEZIA.
Secessione, secessione. A Venezia il mantra del popolo leghista precede e scandisce l'intervento di Umberto Bossi. E il Capo non delude le attese: «Come si fa a restare in questo schifo di Paese? L'Italia non è più una democrazia, il fascismo è tornato con un'altra faccia e aggredisce perfino i corridori al Giro della Padania. Io sono per la via democratica, magari referendaria, d'altra parte se l'Italia va giù la Padania va su». Sì, perché «Ormai il tempo è scaduto, la gente non ne può più, i soldi sono finiti, dobbiamo trovare un modo pacifico per conquistare la libertà che ci spetta». Ovazione dai militanti. Quanti sono? 50 mila, spara l'organizzazione; 10 mila, ridimensiona la questura. I tafferugli di sabato e lo sciopero dei treni hanno frenato l'affluenza ma il colpo d'occhio è discreto. E' un senatùr col braccio fasciato («Sono caduto dalle scale inseguendo il figlio piccolo») quello che comizia in riva Sette Martiri. Oggi compie 70 anni, c'è chi ritma il tanti-auguri-a-te; lui ride e fa le corna: «Sono trent'anni che non festeggio, i giornali scrivono che sono stanco, non è vero, la prossima volta raggiungerò il Po a piedi da Varese». Guai a prestare fede ai giornalisti: «Sono degli Iago, quello di Otello sì. Attaccano la mia famiglia perché non possono attaccare me. Disgraziati. Falsi. Delinquentiii».
La colpa imperdonabile dell'informazione, anzi, del berlusconiano «Panorama»? Aver sottolineato il ruolo di sua moglie, la siciliana Manuela Morrone, nel «cerchio magico» dei consiglieri esclusivi del Capo. Sul palco, comunque, la signora non c'è: ad accompagnare per mano il padre provvede Renzo "Trota" Bossi; resterà al fianco paterno anche nel cruciale rito dell'ampolla. Che quest'anno, oltre al Po, rende omaggio al Piave: «E' un simbolo padano perché tanti dei nostri hanno dato la vita in difesa del Paese. Avessero saputo come si sarebbe ridotta l'Italia, magari avrebbero sparato dall'altra parte. Quei morti, quei cadaveri divorati dai topi e mai restituiti alle famiglie. Una vergogna eterna che ricade sui Savoia». Dalla storia all'attualità, il chiodo fisso resta la secessione: «A Roma c'è chi vuole spingerci allo scontro però hanno fatto male i conti, in Padania siamo in milioni pronti a combattere. Non possiamo più mantenere il centralismo romano e senza la secessione non ci sarà vero cambiamento. Abbiamo portato a casa il federalismo fiscale ma non possiamo fermarci a metà strada. Alla lotta di liberazione ci arriveremo. E la vinceremo perché i nostri popoli laboriosi hanno perso la pazienza». Consueto estremismo parolaio? Bossi, in effetti, non infiamma la base ma si limita ad assecondarne gli umori e annuncia una misteriosa «grande manifestazione di primavera in luoghi bellissimi», forse presumendo che un'eventuale precipitare della crisi finanziaria si tradurrebbe, inevitabilmente, nello scollamento delle regioni a diversa velocità e nel collasso dell'unità statuale. Carroccio di lotta e di governo: «A Milano, tempo fa, mi è capitato di vedere un vecchietto bloccato all'uscita del supermercato con una bistecca e una bottiglia di vino non pagati. Non aveva i soldi, allora ho saldato io perché mangiare è un diritto. Per questo ho convinto Tremonti a non toccare le pensioni: la politica deve tenere giù le mani da chi ha lavorato una vita. Questa manovra ce l'ha imposta l'Europa, la Lega è stata l'unica a difendere il popolo». C'è anche un fronte interno, che giura eterna devozione a re Umberto ma già progetta nuovi equilibri al vertice. «La ditta Bossi-Calderoli ha portato a casa il federalismo e Maroni fa la sua parte con gli immigrati», sentenzia lui salomonico, quasi a sopìre l'allergia degli ultrà lombardo-veneti-piemontesi alla candidatura del ministro dell'Interno alla successione. Lo sa bene "Bobo", che taglia corto sui contrasti interni («Tutte balle»), ringrazia le forze dell'ordine che hanno randellato i centri sociali («Una lezione di democrazia») e rivendica la diversità morale leghista: «A Roma e a Milano c'è gentaglia chi vive di porcate, complotti e ruberie. Noi siamo fatti di una pasta diversa». Infine, tra le note del Va pensiero, la cerimonia dell'aspersione. Col segretario-officiante che versa l'acqua raccolta alle sorgenti del Po sul capo reclinato di Calderoli (in lacrime), Giampaolo Gobbo, Rosi Mauro, Roberto Cota e Federico Bricolo. Il giulivo Trota è a due passi ma si risparmia lo spruzzo. Non sarà un cerchio magico, ma gli somiglia molto.
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