Fini-Berlusconi, la rottura si è consumata E' il giorno della chiarezza

Comunque sia, nulla sarà mai più come prima. La plateale frattura tra Berlusconi e Fini, uno psicodramma in diretta inedito nella storia della politica italiana, nel quale sono emersi, accanto a evidenti dissensi politici, palesi incompatibilità personali, muta radicalmente lo scenario nel partito di maggioranza. Quello che è accaduto non è solo la «cronaca di una morte annunciata» di un rapporto ormai logorato da tempo, ma la messa in campo di una diversa idea di partito: nei contenuti e nella forma.


Nel «giorno della chiarezza», Fini ha elencato, senza reticenze, quanto lo divide da Berlusconi. A partire dal rapporto con la Lega, vero convitato di pietra nella discussione. Fini non vuole un Pdl che segua pedissequamente il Carroccio su immigrazione, federalismo, mancata abolizione delle Province: se non altro perché l’elettore preferisce l’originale alla fotocopia.


Della Lega il «cofondatore» ha poi stigmatizzato l’atteggiamento sulle celebrazioni dell’Unità d’Italia, facendo emergere le preoccupazioni per la coesione nazionale di un Paese sempre più polarizzato tra macroaree regionali e per la tenuta dell’insediamento elettorale del Pdl nel Mezzogiorno. Un partito che perde voti a Nord, ma rischia anche a Sud dove, per contrastare il crescente peso politico della Lega, si organizzano forze autonomiste preoccupate della deriva leghista della maggioranza. Una polarizzazione che, secondo Fini, rischia di togliere al Pdl il ruolo di partito nazionale. Timori che, non a caso, la Lega ha subito bollato come l’uscita allo scoperto del «partito del Sud».


Insomma, questioni politiche rilevanti, quelle poste da Fini, che solo la «sindrome del tradimento» diffusa in un partito personale, nel quale ogni dissenso è considerato un’aggressione alla leadership, possono impedire di affrontare come tali. Riflesso automatico in un Pdl illuso da un successo elettorale che, in realtà come il Veneto, appartiene alla Lega.


Non stupisce, dunque, che Berlusconi abbia detto di essere sorpreso dalle posizioni di Fini: come se il presidente della Camera non le riproponesse, puntualmente e pubblicamente, almeno dall’autunno del 2008; come se fossero riducibili a capricci intellettuali sobillati dai «guastatori» di Farefuturo, puntualmente incorsi nelle ire del fedele Bondi. Uno stupore che aveva come unico intento quello di delegittimare Fini e costringerlo a rientrare, umiliato, nei ranghi, oppure ad andarsene. Obiettivo, quest’ultimo, esplicitato nella stizzita replica in cui il Cavaliere lo ha «invitato» a dimettersi da presidente della Camera qualora intenda continuare a «fare politica». Attacco durissimo, che a l’ennesima crepa tra i due, cui Fini ha replicato con un significativo: «E che fai, mi cacci?». Parole che rivelano la non accettazione di una concezione proprietaria delle istituzioni, ma anche la convinzione di godere di una trasversale rete di sostegno alla Camera, foriera di qualche futuribile sbocco politico.


Fini non è intenzionato a lasciare né il Pdl né lo scranno più alto di Montecitorio. L’esito più temuto da Berlusconi, che sospetta possibili intese parlamentari della neonata corrente con l’opposizione, su temi «sensibili» come la giustizia o che possono incrinare il solido rapporto con la Lega. Una guerra di logoramento che il Cavaliere non intende sopportare. Lo scontro finale con quanti non sono mai stati convinti dalla piega presa dalla «rivoluzione del predellino», e non si sono fatti incantare dalle gratificanti sirene del berlusconismo, pare solo rinviato.

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