Gli alberi abbattuti dalla grande tempesta narrano un disastro che sta accelerando

Il reportage dello scrittore Paolo Malaguti sui boschi feriti sul Grappa, che riportano ai precedenti della Grande guerra e del Vajont

La zona del Massiccio del Grappa che amo più di ogni altra si trova sul versante meridionale, va dal Monte Palòn al Pian dela Bala, attraverso il cosiddetto sentiero delle Meatte.

È una camminata facile, con poco dislivello, ma impagabile per i paesaggi che si attraversano. Prima pascoli aperti e ondulati, poi picchi rocciosi e dirupi che si aprono sulla pianura, svelando orizzonti che nei giorni sereni spaziano fino alla laguna di Venezia; l’attimo prima sei immerso nel sole, al riparo dai venti del nord, e ti godi il tepore sdraiato su un prato o su una roccia, l’attimo dopo, appena attraversata una galleria scavata nella pietra bianca del Grappa dal genio durante la Grande Guerra, ti trovi immerso in una nebbia romantica, spinta dalle correnti termiche contro gli spalti rocciosi che qui come da nessun’altra parte del massiccio fanno da barriera verticale alla pianura.

Lungo il sentiero puoi incontrare molto facilmente i camosci e nelle parti più umide, nelle pieghe interne di vallette minori, puoi scoprire nell’erba orchidee selvatiche o la profumatissima nigritella, fiore scuro e solitario dall’aroma ipnotico.

Si attraversano anche dei boschi, lungo questo percorso: qualche conifera, frequenti faggi, noccioli… La tremenda tempesta di fine ottobre anche qui ha lasciato la sua impronta. Se ne parla poco, perché qui i caduti sono poche migliaia, non certo i milioni del Cadore, dell’Agordino, del Comelico. Ma attraversare in questi giorni il sentiero delle Meatte è comunque triste.

In questi momenti intuisci che il bosco è una struttura complessa, in tutto assimilabile a una città, perché gli alberi schiantati, che giacciono a terra seminascosti nel sottobosco, o che pendono, obliqui, in attesa della neve o di una nuova folata che gli faccia completare la caduta, comunicano la stessa sensazione di scandalo e di disarmo che si prova osservando delle case abbattute da un sisma.

Nei giorni scorsi ho sentito due confronti ricorrenti: quello con la tragedia del Vajont e quello con la distruzione dei boschi durante la Grande Guerra. Tali avvicinamenti sono efficaci, evocativi, e sollecitano, nella loro immediatezza, prima di tutto le emozioni. Non credo, però, che le emozioni bastino: è necessario, per quanto ciò sia difficile, provare a portare fino in fondo le similitudini, avere il coraggio di uscire dall’ambito momentaneo dell’emozione per esaurire il ragionamento.

Il disastro del Vajont: è un confronto azzeccato, e non solo perché gli effetti sulla natura sono stati simili. Il confronto regge anche sulle cause. Viviamo in un momento strano, nel quale chi si permette di additare le responsabilità lontane del disastro viene tacciato di “ambientalismo da salotto”.

Eppure, esattamente come la frana del Toc, mi pare lampante che anche il disastro dei giorni scorsi sia stato un disastro annunciato. Cambia la scala delle responsabilità, ovvio: qui i colpevoli coincidono, per certi aspetti, con tutti coloro i quali (noi compresi) da decenni portano avanti stili di vita e di produzione economica incapaci di autoregolarsi per contrastare il riscaldamento globale, i cui effetti si fanno regolarmente sentire.

Questo che si conclude è stato per l’Europa l’anno più caldo da quando sono iniziate le registrazioni scientifiche delle temperature, oltre due secoli fa. La cosa più preoccupante è sentire da più parti, soprattutto dal mondo politico, ripetere l’aggettivo “straordinario”. Precipitazioni straordinarie, eventi straordinari… Un requisito della straordinarietà è l’unicità.

Nel momento in cui un evento straordinario si ripete a distanza di breve tempo, diventa ordinario, non ci piove. O meglio, ci piove fin troppo.

Forse il problema sta nel fatto che, anche se non vogliamo ammetterlo, la montagna bellunese è comunque periferica, e i milioni di alberi caduti, per quanto impressionino, non ci sconvolgono. Nell’immaginario comune sono montagne da vacanze, non spazi di vita quotidiana.

E infatti ho trovato, per quanto fatte in buona fede, alquanto sintomatiche le dichiarazioni dei politici che hanno incoraggiato gli italiani ad “andare in vacanza” nelle zone del Bellunese per aiutare le popolazioni in difficoltà.

Certo, bene, giusto. Forse sarebbe stato più ambizioso dichiarare che l’Italia si confronterà nelle sedi opportune per rimettere con urgenza sul tavolo dei paesi occidentali la riduzione delle emissioni di CO2. O forse sarebbe stato più ambizioso, negli anni passati, varare piani di riforme efficaci per contrastare lo spopolamento di una montagna che, prima ancora che essere un comprensorio sciistico, è, ripeto, uno spazio di vita. Ma si sa, i piani di lungo corso in politica, e forse soprattutto nella politica degli ultimi anni, non pagano.

E allora tutti a sciare.

L’altra similitudine con i boschi distrutti dalla Grande Guerra mi interessa perché le implicazioni sono più complesse. La somiglianza del fatto in sé è fuori discussione. Ma guardiamo alle cause: di là abbiamo una guerra combattuta su larga scala con armi industriali e con eserciti di massa. Di qua possiamo leggere l’accaduto come l’esito di una guerra?

Credo di sì: una guerra moderna, combattuta da una civiltà che ha lasciato le armi ordinarie ai conflitti periferici, preferendo, per i conflitti “in casa”, le armi dell’economia. Finché viviamo in un mondo nel quale trionfano protezionismi e guerre doganali, mi pare alquanto difficile che i paesi delle grandi economie accettino di sedersi a un tavolo per concordare riforme energetiche costose e di lungo termine. Quindi sì, gli alberi schiantati dal vento sono, come quelli del 15-18, effetti collaterali di un conflitto.

Voltiamoci alle conseguenze: i boschi abbattuti nel 15-18 crearono una crisi profonda nel settore della lavorazione del legno; i pochi che ebbero, sul Grappa come sull’altopiano di Asiago, la “fortuna” di vedersi risparmiati i boschi, nei successivi 30 anni, finché non si fu esaurito il ciclo di ricrescita della nuova generazione di alberi, dovettero vendere il proprio legname alla metà del prezzo di mercato, perché chi lo comprava sapeva che in quei tronchi erano comunque conficcate migliaia di schegge di metallo che rischiavano di danneggiare le seghe a nastro.

Oggi la cosa rischia di ripetersi, i tronchi giacciono inerti, se non si farà in fretta arriverà la neve, il legno marcirà, arriveranno i parassiti, e la prossima primavera anche gli alberi rimasti in piedi potrebbero essere danneggiati.

C’è una seconda analogia nelle conseguenze. L’alto Veneto, fra il 1919 e il 1925, fu l’area d’Italia con il più pesante tasso di emigrazione. Decine di migliaia di persone se ne andarono, fuggirono da una terra che non garantiva più la vita. Se gli alberi caduti oggi sono, come dimostrato, fin troppo simili agli alberi caduti un secolo fa, allora non facciamoci illusioni. Anche questo disastro provocherà fughe.

Ci saranno nuove migrazioni, forse non di massa, forse meno visibili. Ma, proprio come un secolo fa la guerra calò su un paese già a forte vocazione migratoria, anche questo disastro è calato su una parte d’Italia che, nel sostanziale silenzio dell’opinione pubblica, si sta spopolando da tempo: solo negli ultimi quattro anni la provincia di Belluno ha perso, con una costanza quasi aritmetica, più di mille abitanti all’anno. Uno stillicidio che non si riesce a fermare e che, se i confronti storici hanno un senso, quest’ultimo disastro accelererà.

Questo raccontano in silenzio gli alberi caduti delle Meatte. Resta da capire se vogliamo ascoltarli.


 

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