La lettera ai sindaci dei medici di base: «Non vogliamo diventare dipendenti Ssn». È scontro con la Regione
Palmisano, segretario della Fimmg veneta, il sindacato dei medici di famiglia: «A rischio il rapporto di fiducia con i pazienti, l’accessibilità e la prossimità delle cure, la presenza capillare degli ambulatori sul territorio»

È ancora Fimmg contro la Regione Veneto. È ancora il primo sindacato dei medici di medicina generale contro l’idea di Palazzo Balbi di gestire la sanità di base.
Il progetto (del governo, a dire il vero) è noto: far passare i medici di famiglia sotto l’egida del Servizio sanitario nazionale. Trasformando i rispettivi contratti in rapporti di vera e propria dipendenza, come già avviene per i medici ospedalieri.
Una proposta che potrebbe diventare realtà su impulso del governo, si diceva. Ma pure una proposta della quale il presidente veneto Luca Zaia rivendica la paternità: «Lo chiediamo da tempo – ha detto il governatore – per i futuri medici, non per quelli che già lavorano».
Ma sarebbe una pessima notizia, sostiene Giuseppe Palmisano, segretario veneto della Fimmg. Firmatario, insieme ai segretari provinciali del sindacato, di una lettera che è stata recapitata a tutti i sindaci del Veneto.
Un testo per mettere in luce tutti i motivi di criticità della novità, «per far capire esattamente agli amministratori locali quali rischi si corrono con il passaggio alla dipendenza dei medici di famiglia: il rischio di perdere il rapporto di fiducia con i pazienti, l’accessibilità e la prossimità delle cure, la presenza capillare degli ambulatori sul territorio» dice Palmisano, «Il rischio, insomma, di compromettere seriamente uno dei pilastri fondamentali della sanità pubblica».
«L’ipotesi – si legge nella lettera indirizzata ai sindaci – andrebbe a svantaggio di tutta la popolazione, in particolare delle persone anziane e più fragili. E metterebbe in discussione la sopravvivenza dei nostri studi, oltre che favorire il licenziamento del nostro personale di studio».
Vincolare, poi, in modo esclusivo il lavoro dei medici di famiglia all’interno delle case di comunità «costringerebbe il paziente – prosegue Palmisano – a consegnare le chiavi della propria salute non più al proprio medico di fiducia, ma al medico di turno in servizio, in una struttura distante dal proprio centro abitato».
Perché è proprio pensando alle case di comunità che nasce la proposta del governo. Per evitare che queste strutture si rivelino cattedrali nel deserto, costate due miliardi di euro (fondi del Pnrr), ma sfornite del “capitale umano” fondamentale per farle funzionare.
«Nella casa della comunità il paziente chi trova, trova – dice il segretario della Fimmg – A rischio, dunque, sarebbero l’accesso alle cure, la continuità assistenziale e il supporto umano di cui i cittadini hanno diritto».
Ma nella lettera indirizzata ai sindaci, il sindacato smentisce anche la «falsa narrazione delle Regioni» sul rifiuto della categoria a operare nelle case della comunità.
«Noi – precisa Palmisano – non siamo affatto contrari a lavorare nelle nuove strutture. Tanto che l’ultimo accordo nazionale, siglato nell’aprile 2024, già prevede e regola questa possibilità. Siamo convinti, però, che si debbano anche potenziare le aggregazioni funzionali territoriali, cioè l’insieme di medicine di gruppo e ambulatori singoli, che restano fondamentali per rispondere davvero ai bisogni di salute dei cittadini nelle frazioni e nelle aree più disagiate. Solo se funzionano a pieno regime, le case della comunità non resteranno scatole vuote. Il modello attuale consente al cittadino di scegliere liberamente il proprio medico e a noi professionisti di organizzare autonomamente l’attività: garantisce prossimità, continuità e personalizzazione delle cure. Trasformare questa figura in un operatore dipendente, inserito in strutture lontane dalle zone periferiche, rischia di impoverire l’offerta sanitaria pubblica, soprattutto nelle aree più difficili e isolate».
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova