Il Capitano nel suo labirinto e l’idea del partito-felpa

Francesco Jori

PADOVA. Il Capitano nel suo labirinto. Ricorda il titolo di un famoso romanzo di Garçia Marquez, il Salvini post-battaglia del Quirinale; solo che il protagonista lì era un generale (e di che pasta: Simon Bolìvar…); lui già parte con molte meno stellette, e col rischio di ritrovarsi degradato sul campo. L’esito infausto della sua strategia nell’elezione del presidente della Repubblica è solo l’ultima tappa di un cammino ingarbugliato ed ondivago, iniziato con l’autogol del Papeete. Da allora, il segretario si è avvitato in una serie di passi oscillanti tra solenni proclami e puntuali retromarce: fino a ritagliarsi, nella partita quirinalizia, l’opposto del ruolo che si era autoassegnato: kingmaker sì, ma di un suicidio politico, quello della coalizione di cui rivendicava la guida. Non che il prosieguo di questi giorni sia molto diverso, a giudicare dall’esito di un consiglio federale autoassolutorio e privo della minima autocritica. Salvini pencola tra il rilancio di una federazione di centrodestra decisamente improbabile dopo gli strappi con Berlusconi e Meloni, e l’ennesimo azzardo di un nuovo partito ispirato ai repubblicani Usa: scelta quest’ultima già anticipata in termini di immagine, cambiando il verde storico del movimento con un blu simil-Trump quando quest’ultimo era approdato alla presidenza. Ma un partito non è come una felpa che si rimpiazza a ogni spirar di vento: la Lega era ed è frutto di una lunga serie di estenuanti battaglie identitarie, molte delle quali di assoluta minoranza, combattute da truppe encomiabili per dedizione alla causa e impegno sul campo. Ed è con questa base, prima ancora che con i suoi dirigenti di vertice, che il Capitano sta entrando in rotta di collisione. Certo, per “centralismo democratico” la Lega di via Bellerio non è mai stata difforme, tanto meno oggi, dal vecchio comunismo delle Botteghe Oscure di un tempo. Lo strumento dell’espulsione è sempre di moda; ma non può funzionare all’infinito, per un partito commissariato di fatto per la prolungata assenza di congressi e confronti interni. Con la conseguenza di alimentare crescenti mal di pancia, specie in un Veneto che della Lega è azionista di maggioranza in termini di voti; oggi per giunta con una frattura non più strisciante tra una minoranza di pretoriani filo-Salvini, e una maggioranza vecchio stampo che in larga parte si riconosce nel presidente della Regione Veneto Luca Zaia. Il quale comunque ha dimostrato sul campo (regionali 2020) di raccogliere più consensi del suo segretario. “E adesso, come c… uscirò da questo labirinto?”, si chiede il generale di Garçia Marquez al termine del romanzo. Un interrogativo che ora investe Salvini, sia pure con impatto diverso: per Bolìvar è il momento della fine fisica, per il Capitano il rischio è un’altra fine. Meno traumatica, ma non meno devastante: quella politica. —

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