Il segreto di Pablito spiegato da Paolo Rossi: «Pensare più velocemente degli avversari»

Real Vicenza per scalare il mondo, tutta la classe di un veneto d’adozione e la cavalcata nella squadra allenata da Fabbri, che per lui fu come un padre  
Lanerossi Vicenza calcio Faloppa , Giussy Farina e Paolo Rossi
Lanerossi Vicenza calcio Faloppa , Giussy Farina e Paolo Rossi

VICENZA. Un arco di tempo di dieci anni, da Vicenza a Verona. Le tappe di una vita calcistica fortemente radicata nel Veneto, sua terra d'adozione e dove ha scritto alcune delle pagine più belle della carriera, Nazionale a parte.

Paolo Rossi arrivò nella città berica nel 1976, lasciandola nel 1979 (con all'attivo 94 presenze e 60 reti segnate), per emigrare a Perugia, e riannodò il filo con le nostre latitudini quando mise piede sulle sponde dell'Adige nel 1986, per l'ultimo campionato giocato (20 gettoni e 4 gol), chiuso con il quarto posto in Serie A dei gialloblù e la qualificazione alla Coppa Uefa.

Nel 1987, a soli 31 anni, appese le scarpe al fatidico chiodo, arrendendosi alle sofferenze provocategli da ginocchia tormentate da mille acciacchi. Non è un caso che la famiglia abbia scelto il Duomo di Vicenza per i funerali , domani, non è un caso che nella rinascita biancorossa, con il ritorno in B dopo varie traversie, la società avesse voluto affidargli il ruolo di ambasciatore, oltre a riservargli un ruolo nel Consiglio d'amministrazione come membro indipendente.

Qui Pablito ha eretto la piramide dei successi, ottenendo soddisfazioni incredibili. Capocannoniere della Serie B al termine del campionato 1976/77 con 21 reti e re dei bomber l'anno successivo, quello dello straordinario secondo posto in A alle spalle della Juventus (campione d'Italia), con 24 gol.

Giancarlo Salvi, suo compagno di squadra e centrocampista dai piedi buoni scomparso nel maggio 2016 – così come di quel "Real" Vicenza non ci sono più l'allenatore G.B. Fabbri (mancato nel giugno 2015), Innocenzo Donina, centrocampista (se n'è andato nel marzo scorso) ed Ernesto Galli (morto a fine novembre) – un giorno gli disse: «I tuoi anni più belli sono stati i primi due a Vicenza, non giocherai più così». Verità, perché, come ricorda Franco Cerilli, «era imprendibile, ci voleva un fucile per fermarlo».

Fu così, con la gragnuola di palloni scaraventati alle spalle dei portieri avversari, che convinse Enzo Bearzot a convocarlo per i Mondiali di Argentina (1978). Lo stadio Menti traboccava di entusiasmo per le gesta di quel gruppo che Fabbri aveva plasmato in modo mirabile.

Quando, il 18 febbraio di quest'anno, a Venezia, invitato in Consiglio regionale da Luciano Sandonà e ricevuto con tutti gli onori dal presidente Roberto Ciambetti, presentò con la moglie Federica Cappelletti il libro “Quanto dura un attimo”, Rossi ricordò così il rapporto con l'allenatore emiliano: «Fabbri è stato un padre per me, il classico padre di famiglia che ti consiglia e ti prende sotto la sua protezione. Gli devo molto, così come devo molto a Bearzot. Ma fu lui a trasformarmi da ala a centravanti, vide subito che potevo avere un ruolo diverso e cambiò sicuramente la mia carriera». Che squadra, però, quel Vicenza, dove tutti giocavano a memoria o quasi.

Non gli dispiacque affatto il soprannome “Pablito”, attribuitogli dal compianto Giorgio Lago, grande giornalista veneto ed editorialista dei nostri quotidiani. Un diminutivo alla spagnola, “il piccolo Paolo”, coniato nel primo dei tre Mondiali disputati, quello del 1978 in Argentina.

Lago era un profondo conoscitore dello sport e del calcio e mai nomignolo fu più azzeccato, visto che fu adottato da tutti. In occasione della presentazione di sette mesi fa in laguna, chiedemmo a Rossi il perché del titolo del suo libro e la risposta fu quella di un uomo che aveva voluto fare un regalo ai milioni di tifosi che l'avevano osannato ed applaudito: «Il titolo “Quanto dura un attimo” racchiude la mia dote più importante, l'intuizione di pensare più velocemente degli avversari e arrivare prima sulla palla, una qualità che si deve avere dentro e che non può essere insegnata. Ma il talento, certo fondamentale, non è sufficiente se non viene accompagnato da un carattere forte e determinato». E, riferendosi al periodo oscuro della squalifica di due anni subìta in relazione al presunto coinvolgimento nel calcioscommesse, aggiunse: «Il mio segreto è stata proprio la grande forza d'animo che mi ha permesso di rialzarmi sempre, dopo tante cadute».

A Verona capì che non avrebbe più potuto continuare a sopportare il peso di altre decine di partite ad alto livello e chiuse. Lasciando un'eredità alle future generazioni più che mai attuale: «Le prove nella vita fortificano, sono una preziosa opportunità di crescita, questo voglio dire ai giovani». Parole da scolpire nel marmo. —

 

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