Imprenditore di Conselve: "Rovinato dalle banche, compro una pallottola"

"Ormai non mi resta nulla: insieme alla mia azienda mi hanno tolto ogni cosa. Sono stato distrutto dagli istituti di credito, non dalla crisi". Giuseppe Baratto, 36 anni, di Albignasego, lancia il suo grido due giorni dopo il suicidio del collega Paolo Trivellin di Vo’
CONSELVE. «Ormai non mi resta nulla, insieme alla mia azienda mi hanno tolto ogni cosa. Quindi o mi compro una pallottola per usarla contro di me o contro qualcun altro, o lotto per riprendermi ciò che mi è stato portato via. Ho scelto di lottare e non mi fermerò alle denunce. Sono stato rovinato dalle banche, non dalla crisi».


Giuseppe Baratto, 36 anni di Albignasego, è un giovane imprenditore che sta facendo i conti con il fallimento della sua azienda, la BM di Conselve, che fino a maggio dell’anno scorso dava lavoro a 19 dipendenti nel campo delle lavorazioni meccaniche per conto terzi. I guai sono iniziati quando le banche a cui si appoggiava hanno chiuso i rubinetti dei fidi e hanno chiesto all’azienda di rientrare immediatamente con l’esposizione finanziaria. Venuta meno la liquidità non c’era più denaro per pagare i dipendenti, una decina dei quali hanno presentato istanza di fallimento.


Due mesi fa la sentenza del giudice fallimentare e l’avvio della procedura di recupero dei debiti. Oggi l’ufficiale giudiziario si presenterà per il pignoramento dei beni dopo aver già inventariato le attrezzature e gli strumenti. «E’ una grande umiliazione che vorrei risparmiare ai miei genitori, che hanno lavorato per una vita. - racconta Baratto - E anch’io mi sono sempre dato da fare. Ho iniziato a lavorare da giovane, poi, nel 2001, ho deciso di mettermi in proprio e, senza disporre di grandi capitali, ho aperto una mia attività che è partita bene. Il fatturato è sempre cresciuto fino ad arrivare a 780 mila euro. Il lavoro non mancava e le prospettive erano buone, ma non avevo fatto i conti con le banche, che di punto in bianco non solo mi hanno precluso ogni possibilità di finanziamento ma mi hanno anche imposto di rientrare al più presto con i debiti che loro stesse mi avevano spinto a fare».


Per avviare l’attività Baratto aveva acceso un mutuo da 150 mila euro e aveva aperto un fido per far fronte alle spese, offrendo in garanzia la casa, un terreno e una fideiussione. Per qualche anno non ci sono stati problemi, ma ad un certo punto gli istituti di credito hanno proposto all’imprenditore alcune operazioni finanziarie per far fronte alle spese. «Prima la Antonveneta, che ho già denunciato, - continua Baratto - e poi la Bcc di Sant’Elena hanno messo in piedi un sistema che ha generato debiti via via sempre più alti. A fronte di un fido di 80 mila euro mi hanno fatto splafonare fino a 250 mila euro. Questo perché per le banche erano soldi sicuri, visto che nessuno dei miei clienti ha lasciato insoluti. Nel settembre 2008 le banche mi hanno chiesto di rientrare precludendomi ogni possibilità di ottenere ulteriore liquidità». Da lì la situazione è precipitata, ma Baratto ha presentato ricorso contro la sentenza del giudice fallimentare e ha denunciato di essere vittima di usura bancaria.


«L’anno scorso mi stato persino impedito di accedere ad un mio deposito da 50 mila euro che mi avrebbe permesso di pagare gli operai. - aggiunge - Ci sarebbero le condizioni per far ripartire l’azienda, su cui sono ancora disposto ad investire perché rappresenta la mia vita. Non sono scappato all’estero con i soldi, non ho sperperato nulla. Ora però non ho nulla e non posso nemmeno trovarmi un lavoro perché nessuno assume chi è stato dichiarato fallito. Lotterò per arrivare alla revoca della sentenza e riavere ciò che mi è stato estorto».
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