L’alluvione del Po nel 1951: voci dalla memoria di una terra offesa e ferita

ROVIGO. «Acqua! Inverno del cinquanta e un, s’ha rotto l’arzere del Po, la piena i campi ga allagà, cristiani e bestie s’annigà». Sui titoli di coda di “Po” – il documentario firmato da Andrea Segre e Gian Antonio Stella sulla piena che il 14 novembre del 1951 invase le terre del Polesine – i versi di Gualtiero Bertelli accompagnano le immagini di una tragedia dimenticata. 102 vittime e più di 100 mila profughi costretti ad abbandonare tutto, mentre l’acqua tracimata dall’argine sinistro del fiume travolge ogni cosa: uomini, animali, persino la miseria. Perché allora il Polesine era una delle regioni più povere d’Europa, ancora lontanissima da quell’euforia della ricostruzione post-bellica che si respirava in altre parti d’Italia.
Una povertà “disumanante” la definisce uno dei superstiti di allora. Perché il documentario si nutre di due grandi archivi: quelli in pellicola dell’Istituto Luce e le testimonianze dei bambini polesani, oggi ottantenni, che ricordano quei momenti. I loro racconti, ancora vividi, e brevi sequenze dei cinegiornali dell’epoca si rincorrono per far emergere una memoria poco frequentata, anzi spesso derubricata.
Video. Po 1951: il trailer del documentario sull'alluvione firmato Segre e Stella
Dopo “Molecole” e “Welcome Venice”, Andrea Segre incrocia un’altra storia che affronta il rapporto tra uomo e natura, ma anche il tema dell’“abitare” insito della condizione stessa di profugo.
«Quando Stella mi ha chiamato per coinvolgermi nel progetto» racconta il regista «mi sono preso qualche giorno per visionare gli archivi. Un materiale bellissimo conservato in pellicola. E ho pensato che, oltre alla suggestione cinematografica e al desiderio di portare gli archivi sul grande schermo, quella vicenda fa parte del mio percorso perché racconta il rapporto con un territorio e con la condizione di profugo che anche i veneti hanno vissuto. L’alluvione del ’51 fu senza dubbio causata da precipitazioni eccezionali ma è anche legata a uno sfruttamento industriale che ha reso quelle terre più deboli rispetto all’attacco della natura. Poi mi interessava molto l’incontro con i bambini di allora, figli di una società miserrima che, di fronte a un cataclisma legato a doppio filo con uno sviluppo industriale spregiudicato, diventano profughi».
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Nell’affrontare questa tragedia, la sinergia con Stella è stata fondamentale. «Anche questa collaborazione» prosegue Segre «si inserisce nel percorso di interazione con il giornalismo che connota molti dei miei lavori. Stella è un maestro dell’inchiesta italiana, è un fiutatore dei fatti. Mi ha portato a capire e a conoscere le fonti. Ma lo scambio è stato reciproco perché poi quelle notizie, una volta raccolte, dovevano trasformarsi in una narrazione cinematografica che ha tempi diversi dal giornalismo».
I racconti dei sopravvissuti sono pezzi di memoria che salgono in superficie: a volte con la voce rotta dal pianto, altre con la spensieratezza di una infanzia non sempre consapevole della tragedia. Tutti, però, desiderosi di raccontare. «I polesani sono, in un certo senso, dei veneti del sud. Non abbiamo trovato alcuna resistenza al confronto: ognuno di loro era pronto ad aprirsi senza riserve. Mi ha colpito moltissimo la qualità della loro memoria, il dettaglio del racconto. Temevo di raccogliere delle testimonianze quasi precostituite, tramandate nel corso di 70 anni. Non è stato così. I loro ricordi sono vivi, non preconfezionati, frammenti illuminati in mezzo a tanto oblio».
Uno dei bambini di allora riporta alla luce una tragedia nella tragedia, quando il camion che doveva portare in salvo la propria famiglia fu travolto dall’acqua: morirono 84 persone, tra cui la madre e tre sue sorelle. «Di quella testimonianza» confida Segre «mi ha colpito un passaggio. Allora quel bambino non poteva nemmeno raccontare ciò che gli era accaduto perché quel dramma era fonte di vergogna come se dovesse nascondere il fatto di essere stato vittima di una tragedia. Credo sia il portato di una cultura che fatica a elaborare il lutto, che non ne parla in pubblico e che ai funerali demanda alla figura del prete la gestione del dolore, restando in silenzio. Quel signore anziano, di fronte alla lapide commemorativa dell’incidente, mostra tutta la fatica di un ricordo che, per anni, ha dovuto quasi celare a se stesso».
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Dopo l’alluvione un autentico afflato solidaristico mobilitò tutta l’Italia e non solo. Arrivarono aiuti persino dall’Urss in un luogo molto particolare sul piano politico agli albori della Guerra Fredda. «Ogni tragedia, in fondo, incrocia sempre la politica. Ci sembrava interessante mostrare anche le tensioni di una terra al confine tra l’Emilia rossa e il Veneto democristiano, in cui si incontrano Berlinguer, da una parte, e De Gasperi e Rumor, dall’altra».
“Po” sarà presentato stasera in anteprima a Rovigo al cinema Teatro Duomo insieme a Gian Antonio Stella, prima di un tour che toccherà anche Roma e Milano e, in Veneto, Vicenza e Padova (1 aprile), Treviso e Belluno (il 2), Venezia, Mestre e Montebelluna (il 6). Insieme agli autori ci saranno molti dei testimoni di allora. “Fradei despersi”, li chiamerebbe Gino Piva, come il titolo di una sua poesia: “Fradei despersi, se trovè’l sentiero, fradei fortuna! Ma l’è torbio el giorno e l’è la tera tuto un çimitero … L’Àdese, el Po, el Tàrtaro i travasa. Chi mai sarà che possa farve festa? ”. —
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