L'analisi: Salvini, un performer politico senza visione d’insieme
Più King Lear che kingmaker Matteo Salvini dopo la “mossa Casellati”. Nel sesto voto di ieri pomeriggio si è tornati alla scheda bianca per il trittico Pd-M5S-LeU (a cui si è aggiunta Italia viva) e all’astensione per il destracentro. Ovvero, la già sperimentata modalità del temporeggiamento e, al medesimo tempo, la maniera di tornare a contarsi dopo il “fattaccio” avvenuto nella chiama della mattina.
Quella in cui Salvini, che si è voluto intestare un ruolo di croupier, ha tentato la prova di forza, “mandando a sbattere” Maria Elisabetta Casellati.
Una figura che aveva varie caratteristiche giocabili – dalla carica istituzionale sino alla domanda sociale di protagonismo politico femminile, insieme a una serie di incidenti di percorso – ma che si è fermata a quota 382, con un numero di franchi tiratori (le stime divergono) compresi tra i 60 e a 70.
Un brutto finale di partita (quirinalizia) per la presidente del Senato, che è stata buttata nella mischia nonostante la contrarietà più volte dichiarata dalle altre forze politiche, e ha portato all’ennesimo scambio di accuse reciproche fra i partner di un destracentro che, di fatto, non c’è più.
Almeno non nella formula che abbiamo conosciuto in questi decenni dopo la sua fondazione a opera di Silvio Berlusconi – e proprio la sua insistita (e poi decaduta) volontà di candidarsi ha rappresentato l’innesco di una deflagrazione la cui portata si misurerà già nelle settimane a venire.
Principali indiziati della sconfitta (e accusati di tradimento): i centristi di Cambiamo Italia e la fronda interna a Forza Italia. In buona sostanza, giustappunto, non un bel biglietto da visita per il futuro di una coalizione già lacerata dalla competizione per il primato tra il leader della Lega e quella di FdI, e che – come si poteva immaginare – sarebbe finita risucchiata dalle dinamiche centrifughe e di riconfigurazione del sistema dei partiti indotte dall’inedita stagione dal governo di larghe intese di Mario Draghi.
Il centrosinistra ha concesso a Salvini la possibilità di prendersi l’iniziativa, e lui si è barcamenato tra aperture al dialogo e marcate rivendicazioni di un presidente di area, presentando così una rosa di nomi di centrodestra, ma senza neppure riuscire a farli votare quali candidature di bandiera.
Per arrivare, quindi, alla padovana Casellati, una figura idealtipica del partito berlusconiano (avvocata e cofondatrice di Forza Italia) e, al medesimo tempo, in eccellenti relazioni con il capo leghista, ma con parecchi avversari interni.
Salvini si è così confermato come un vero e proprio “performer” politico che dà il meglio di sé nella comunicazione e nella campagna elettorale permanente, ma non certo nella strategia per troppa impulsività e per difetto di visione d’insieme.
Ovvero, per dirla con le parole di una recentissima intervista a La Stampa di Paolo Cirino Pomicino, tra i protagonisti della Prima Repubblica (e oggi osservatore molto lucido della politica), «la leadership non è il mestiere di Salvini».
Ha pensato di poter effettuare il colpo di mano e un blitzkrieg per sfondare le linee altrui, pescando in primis dalla “pancia” parlamentare grillina, sulla scorta dei voti già ricevuti da Casellati per la presidenza del Senato. Ma all’epoca c’era stato uno scambio con quella della Camera per Roberto Fico e, dunque, la bocciatura di Casellati è innanzitutto una sonora sconfitta per lui.
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