L’avvocato diventato donna fa causa alla Regione Veneto

TREVISO. Trent'anni fa il Parlamento italiano regolamentava gli interventi di cambiamento di sesso. Vent'anni fa lo faceva la Regione Veneto, impegnandosi tra l'altro a fornire l'assistenza medico-chirurgica ai cittadini. Una legislazione all'avanguardia, senza dubbio. Solo sulla carta, però, perché non è mai stata applicata nella realtà. Lasciando allo sbaraglio i cittadini bisognosi. A denunciarlo è l'avvocato Alessandra Gracis di Conegliano che dopo aver presentato il problema con due raccomandate al governatore Luca Zaia, si prepara ora a una maxi-causa di risarcimento danni al ministero, alla Regione, all'Usl.
Alessandra Gracis era, fino al luglio dello scorso anno, un uomo. Un uomo che però si è sempre sentito donna. Così, dopo aver intrapreso un lungo e complesso percorso terapeutico, ha deciso di rivoluzionare la sua vita e di cambiare sesso. Lo ha fatto nella superspecializzata clinica di San Mateo, California, con l'intervento eseguito dalla chirurga Marci Bowers (una luminare che sabato sarà nella Marca).
Una scelta, quella dell'operazione all'estero, quasi obbligata: la ripetuta richiesta di informazioni che il legale aveva all'epoca presentato tramite l'Usl 7 alla Regione sulle strutture ospedaliere abilitate in Veneto e in Italia, era infatti caduta nel vuoto. E il copione si ripete: ora che l'avvocato Gracis ha sollecitato indicazioni sulle strutture post-operatorie senza ricevere risposta alcuna. Ma il caso della professionista coneglienese non è isolato: analoga sorte è toccata a Marta, impiegata trevigiana di 35 anni operatasi nel 2008 a Pietra Ligure e finita lì quasi per caso, per non aver ricevuto informazioni su strutture pubbliche specializzate nel territorio. L'intervento è andato male, tale da costringerla a un calvario di successivi ricoveri durato un anno. E se ora avesse bisogno di assistenza non saprebbe a chi rivolgersi. Il suo caso è seguito ora dall'avvocato Gracis.
«Mi meraviglia il fatto che il governatore Zaia, così attento ai diritti in materia sanitaria dei cittadini veneti, non si sia reso conto del fallimento più totale del programma di aiuti sotteso alla deliberazione regionale e non abbia messo mano ad un programma di serio miglioramento delle cose», attacca il legale coneglianese. Che cita, per contro, l'esperienza della Regione Lazio.
Eppure la legge c'è. C'è, per l'esattezza, la 164 del 1983 che disciplina la procedura di cambio sesso. E c'è, soprattutto, la numero 22 del 25 giugno 1992 che stabilisce, tra l'altro, come «il servizio sanitario regionale fornisce l'assistenza medico-chirurgica complessiva necessaria alla rettificazione di sesso nei casi autorizzati con sentenza del tribunale». La stessa norma sancisce che, entro 30 giorni dalla sua entrata in vigore, la giunta regionale individui le strutture ospedaliere adeguate in cui potranno essere fatti gli interventi ed entro un anno la verifica dei livelli di attività delle strutture in questione. La Cassazione, infine, nel 2003 ha sancito l'obbligo per le aziende sanitarie di informare il cittadino sulle strutture spEcializzate esistenti in Italia fornendo le relative prestazioni.
Fin qui, dunque, la legge. La realtà, però, è diversa. La sua esperienza è ricostruita nelle raccomandate inoltrate lo scorso luglio alla Regione. Tutto inizia il 27 aprile 2012 quando, in previsione dell'operazione di cambiamento sesso, l'avvocato chiede all'Usl di residenza, la numero 7 di Pieve di Soligo, di poter conoscere le strutture sanitarie specializzate idonee a fornire «l'adeguata e tempestiva erogazione» della prestazione sanitaria in questione. Un mese dopo una dirigente dell'azienda sanitaria spiega di aver girato la domanda alla Regione; trascorso un altro mese, la stessa funzionaria precisa di non aver avuto risposta alcuna, di essersi però informata con alcuni medici i quali hanno consigliato una clinica di Trieste. Un'indicazione basata su un passaparola per un intervento delicato e complesso. «Cosa deve fare un cittadino veneto, che paga regolarmente la tasse, che si trova nella mia situazione?» scrive Gracis nella lettera di luglio alla Regione, «dovrebbe forse affidarsi a voci di corridoio secondo le quali, per sentito dire, sarebbe consigliata una clinica piuttosto che un'altra non si sa in base a quali critieri e comunque ubicata fuori dalla Regione di competenza?».
In assenza di risposte, Gracis affronta l'operazione in Califonia, sborsando 30 mila euro. E ora che l'intervento è stato eseguito (e perfettamente riuscito) il problema si ripropone: con raccomandata dello scorso luglio l'avvocato Gracis ha infatti chiesto alla Regione di poter conoscere le strutture capaci di seguire il decorso post-operatorio. La risposta? Il solito silenzio.
«Non è pensabile che dopo oltre 30 anni dall'entrata in vigore della legge dell'82 e dopo 20 da quella del '93 in Italia non esista un centro specializzato in tale tipologia di interventi e che il Veneto, pur dopo aver legiferato, se ne sia totalmente lavato le mani», scrive Gracis a Zaia dicendosi costretta «anche nell'interesse di futuri cittadini-pazienti, a porre la questione dell'indadempimento della Regione e dell'Usl ai miei diritti soggettivi di ricevere assistenza e prestazioni chirurgiche nella Regione Veneto». Inadempiente il ministero della Salute per non aver saputo garantire i Lea, i livelli essenziali di assistenza; inadempiente la Regione per non aver applicato la legge; inadempiente l'Usl per non aver saputo fornire le informazioni richieste. Di qui la prospettazione di una richiesta danni.
Gracis auspica infine che la Regione abbia posto rimedio con il piano socio sanitario: «Nella malaugurata eventualità che il piano regionale non abbia incluso alcuno stanziamento per rispettare le legge 22/1993 si invita chi di dovere a voler mettere la parola fine a 20 anni di inadempienze».
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