L'ultimo giro di giostra: il racconto di Matteo Righetto

L'inedito dello scrittore padovano per i nostri lettori: un noir ambientato nella laguna di Venezia nello spietato ambiente malavitoso della pesca abusiva
Industrial chemical area of Marghera seen from the ferry, Venice lagoon, Venice, Veneto, Italy, Europe
Industrial chemical area of Marghera seen from the ferry, Venice lagoon, Venice, Veneto, Italy, Europe

Vi proponiamo qui di seguito l'inedito italiano del celebre scrittore padovano Matteo Righetto per i nostri lettori: un noir ambientato nella laguna di Venezia nello spietato ambiente malavitoso della pesca abusiva

La biografia. Matteo Righetto è docente di lettere e di letteratura del paesaggio, vive tra Padova e Colle S. Lucia. Ha esordito con Savana Padana (Tea 2012); da “La pelle dell'orso” (Guanda 2013) è stato tratto un film con Marco Paolini. È autore del testo teatrale “Da qui alla luna”, interpretato da Andrea Pennacchi e prodotto dal Teatro Stabile del Veneto. La sua Trilogia della Patria (Mondadori) è tradotta in tutto il mondo.

***

PARTE 1

Il sole era tramontato da un paio d’ore e come ogni sera una leggera foschia iniziò ad alzarsi dall’acqua per ammantare la città.

Alvise era seduto a poppa della sua piccola imbarcazione, una vecchia patanella dallo scafo semiscrostato.

Procedeva silenzioso lungo il Rio della Misericordia cercando di pensare soltanto a Tania, che di lì a poco l’avrebbe accolto sapendo bene come rilassarlo.

Si erano conosciuti per caso qualche mese prima, amici di amici, come succede quasi sempre in una città in cui la vita sociale si svolge per lo più nei bacari disseminati ovunque tra calli e campielli. Avevano scambiato due chiacchiere bevendo qualche spritz e si erano piaciuti.

Tania aveva venticinque anni e lavorava come commessa in un piccolo negozio di souvenir kitsch in Rio Terà San Leonardo, a pochi passi dall’appartamento nel quale viveva in affitto. Lui di anni ne aveva dieci di più e un lavoro vero e proprio non ce l’aveva. O meglio non ce l’aveva più , da quando era stato licenziato dal Petrolchimico di Porto Marghera dove aveva fatto l’operaio per quasi quindici anni. Rimasto senza uno stipendio si era reinventato facchino trasportando i bagagli dei turisti da piazzale Roma agli alberghi più vicini, un impiego faticoso e poco redditizio che però aveva abbandonato quasi subito, quando Dario, un suo vecchio compagno di scuola, un giorno lo aveva incontrato al bacaro sotto casa e tra un’ombra di bianco e l’altra, una chiacchiera e l’altra, gli aveva parlato di una cosa interessante che avrebbero potuto fare insieme, «un lavoro che ti risolverebbe tutti i problemi», gli aveva detto quella volta. E infatti si era trattato di una proposta così interessante che Alvise aveva accettato senza pensarci due volte.

A casa di Tania mancava ancora una decina di minuti, quando Alvise si rese conto che nel pacchetto che teneva in tasca gli erano rimaste soltanto due sigarette e che il carburante nel serbatoio era quasi a secco.

Fece due conti e pensò che per andare da lei e tornare a casa la benzina gli sarebbe bastata, ma per le cicche il discorso era diverso: con le ultime due avrebbe tirato avanti non più di un’ora, e sapeva bene che da quelle parti non avrebbe trovato un solo tabaccaio. Come per un riflesso condizionato si guardò comunque intorno alla vana ricerca di un’insegna con la «T» bianca, poi sputò in acqua, tirò fuori la penultima Marlboro dal pacchetto e l’accese. Nonostante fosse imbottito di antidolorifici, la spalla gli faceva sempre più male e l’umidità che come un tiranno regnava su Venezia notte e giorno, non lo aiutava a trovare sollievo. Aveva una voglia matta di vedere Tania e, più si avvicinava a destinazione, più cresceva in lui il desiderio di toccarla, abbracciarla e godere del suo corpo caldo, anche se sotto sotto si sentiva turbato e irrequieto come mai si era sentito ultimamente.

Sbuffò una boccata di fumo che andò a confondersi nella foschia. Aspirò la sigaretta con foga fino al filtro, quindi la gettò nel canale che taglia in due il cuore di Cannaregio, uno dei sestieri più popolari e poveri della città, e infine guardò l’orologio. Erano le nove e un quarto e notò che sulle spartane Fondamenta degli Ormesini non c’era anima viva, a parte un paio di turisti, probabilmente americani, che avevano l’aria di essersi smarriti in quel luogo labirintico e tentavano di riordinare le idee consultando una guida della città. Alvise pensò che i turisti erano tutti uguali fra loro, di Venezia riuscivano a vedere soltanto la pelle, proprio come quando si guarda la superficie del mare e si crede di averlo visto tutto.

Nessun altro in giro, né a destra né a sinistra. Nessuno.

Dopo qualche minuto, la sua vecchia patanella giunse finalmente a destinazione.

Rallentò, spense il motore e fece scivolare la barca fin sotto il ponte che conduce al quartiere ebraico, quindi approdò dolcemente alla riva e attraccò. Si guardò attorno e, stando attento a non fare leva sulla spalla dolorante, scese a terra con un balzo. Guardò l’ora: nove e venti. Salì sul ponte di ferro e scese al Campo del Ghetto Nuovo.

Tania abitava proprio lì a due passi, viveva da sola in un piccolo appartamento al quarto piano di uno degli edifici più alti della città, al cui pianterreno c’era una yeshivà frequentata da ebrei chassid provenienti da tutto il mondo, i quali studiavano e pregavano giorno e notte come ossessi.

Attraversò il grande Campo e si diresse verso il portone di legno del palazzo. Suonò il campanello e, mentre aspettava la risposta della ragazza, sbirciò dentro le finestre della scuola ortodossa, dove vide decine di giovani ce pregavano e leggevano ad alta voce il Talmud ciondolando come orologi a pendolo, apparentemente in preda a un’estasi collettiva. Ogni volta che vedeva quella scena provava qualcosa di strano, tra il rapimento estatico e una grande compassione, un misto tra ammirazione e pena che nemmeno lui riusciva bene a decifrare.

«Chi è?» disse Tania al citofono.

Lui non rispose e rimase per un attimo a osservare quei ragazzi pallidi e tutti uguali fra loro, vestiti di nero, con i riccioli che spuntavano da sotto i cappelli e le camicie bianche inzuppate di sudore per l’estenuante movimento della preghiera.

Li osservò incantato, attento a non farsi vedere, ed ebbe come la sensazione che le loro orazioni avessero una potenza tale che gli sembrò di vederle uscire dal palazzo e salire al cielo come vapore.

Quando salì le scale e varcò il portoncino del miniappartamento, fu subito investito da un forte profumo di incenso che fluttuava ovunque.

«Samskhruthi indiano. L’ho preso oggi, ti piace?» gli disse Tania accogliendolo in casa e sfilandogli il giubbetto.

«Un po’ forte...»

«È da meditazione. A me piace un casino, ma se vuoi lo spengo».

Lui fece cenno di no, si toccò la spalla e si accomodòsul divanetto verde che stava nella piccola cucina che faceva anche da soggiorno.

«Ti fa ancora male?» gli chiese lei premurosa.

«Passerà».

Tania era evidentemente da poco uscita dalla doccia: indossava una vestaglia di seta e i lunghi capelli scuri le cadevano sulle spalle e sul petto ancora un po’ bagnati.

«È per via della giostra, non è così?» disse lei.

«Che» .

«Il male alla spalla...» .

«Già».

Alvise era nervoso, non riusciva a parlare e si sentiva strano, come se un insolito presentimento ronzasse intorno alla sua ombra senza mai rivelarsi del tutto. Una serata strana.

Tania lo notò subito e capì che quella sera non sarebbe stato facile rilassarlo. Certo, sapeva bene che non era la prima volta che quella cosa lo attendeva e che Alvise non l’aveva mai presa alla leggera, ma quella sera lo vide davvero più teso che mai. Per metterlo a suo agio accese alcune candele profumate sparse per tutta la casa e spense la luce, creando così un’atmosfera molto più intima e calda. Poi andò in cucina, aprì il frigorifero e tornò da lui con una bottiglia di Raboso e due bicchieri.

«Beviamo un goccio?» gli propose facendoglisi vicina.

«Volentieri».

Lei sorrise e si sedette su di lui a cavalcioni, lasciando che la sua morbida vestaglia si aprisse mostrando gran parte del suo corpo. Versò da bere per entrambi e fece tintinnare il suo bicchiere contro quello di Alvise.

«Alla nostra!» disse avvicinando le sue labbra a quelle di lui.

«Sì, alla nostra» disse lui sciogliendosi finalmente un po’ e baciandola.

Bevvero i due bicchieri di vino e poi se ne versarono dell’altro, iniziando a baciarsi sempre più appassionatamente.

A quel punto Tania andò all’impianto stereo, inserì un cd di Erykah Badu, selezionò “Didn’t Cha Know” e poi tornò da lui. Gli sfilò via il maglione e la camicia e gli slacciò i pantaloni, poi si tolse di dosso la vestaglia e continuando a guardarlo con desiderio scivolò piano piano ai suoi piedi.

Lui chiuse gli occhi e reclinò la testa sul divanetto, mentre avvertiva il respiro di lei avvicinarsi al suo ombelico per poi scendere ancora. E poi ancora. Fino a lì, dove sentì la sua bocca generosa aprirsi lentamente.

Dopo qualche minuto Tania tornò su e lo fece stendere sul divanetto per poi montargli sopra.

Nonostante il piacere fisico, Alvise non riusciva a togliersi dalla mente ciò che avrebbe dovuto fare qualche ora dopo e nella testa gli rimbalzavano mille pensieri e preoccupazioni che non riusciva a scacciare. Tentava di concentrarsi sul sesso, ma gli venivano in mente gli ebrei che qualche metro più sotto ondeggiavano e ancheggiavano con movimenti simili a quelli di Tania. Guardava il corpo sensuale di lei che si agitava avanti e indietro sopra di sé eppure gli passavano per la testa le onde nere della laguna che lo aspettavano lì fuori e le immagini di aerei che decollavano e atterravano.

***

PARTE II

Canal and traditional waterfront houses at night, Venice, Italy
Canal and traditional waterfront houses at night, Venice, Italy

 

Dopo l’amplesso lei scivolò via. Trascorsero alcuni minuti in silenzio, poi Tania si rimise la vestaglia e versò altri due bicchieri di Raboso, mentre Alvise era rimasto con lo sguardo incollato al soffitto ammuffito dove si era adagiata una densa coltre di incenso.

«A che pensi?» disse lei scolando il suo rosso rubino.

«A niente».

Poi un mare di silenzio e il tempo che passò come il vento sul pelo dell’acqua.

«Si può sapere che cazzo hai stasera, Alvise? »

Lui tacque qualche istante, poi disse:

«Credo che quella di stanotte sarà l’ultima volta, Tania».

Lei prese un vasetto di pomata e gli disse:

«Da’ qua la spalla!»

Lui si lasciò fare volentieri e, mentre lei lo massaggiava, si accese l’ultima sigaretta del pacchetto.

«Se ti perdi tuo danno» disse lei leggendo ad alta voce il motto che Alvise si era fatto tatuare sulla schiena come se fosse un asso di bastoni in carne e ossa.

Quando la ragazza ebbe finito, andò verso un armadietto e tirò fuori una scatoletta dove erano riposte dell’erba e delle cartine.

«Quindi se ho capito bene stasera ci sarà l’ultima giostra?» disse iniziando a rollarsi una canna.

«Credo proprio di sì, è troppo rischioso, stavolta smetto di giocare».

«Però finora hai guadagnato bene, no?»

«Ho messo da parte un bel po’ di soldi, sì».

Lei leccò la cartina e accese la canna fumandone con voluttà un paio di boccate.

Ci fu un silenzio profondo per qualche minuto.

«Perché non vieni via con me, Tania? Andiamocene da Venezia e rifacciamoci una vita altrove!»

Lei rise e poi tacque nuovamente.

Alvise guardò l’orologio, segnava le dieci e tre quarti: il tempo era volato e si era fatta l’ora di andare.

«Mi dai un altro bicchiere?» le chiese.

Lei prese la bottiglia e gli versò un altro po’ di vino che lui bevve in un sorso, come se volesse chiudere il loro incontro con quel gesto. Poi spense il cippo della sua sigaretta sul posacenere, si alzò e si rivestì.

«Stai attento!» gli disse lei. Lo baciò e prima di accompagnarlo all’uscio aggiunse sorridendo: «Se ti perdi tuo danno» e gli fece l’occhiolino.

«Tranquilla, ci sentiamo domani» e Alvise fece per uscire.

«Ah...» aggiunse. «...ce l’hai mica una sigaretta da lasciarmi, che le mie le ho finite?»

Tania rientrò rapidamente nel piccolo soggiorno, recuperò una delle sue sigarette extra lights e gliela porse.

Alvise uscì, attraversò il Campo del Ghetto Nuovosenza incontrare anima viva, risalì e ridiscese il ponte di ferro e in pochi secondi fu di nuovo a bordo della sua patanella. Accese il motore, si girò su se stesso e percorse al contrario tutto il Rio della Misericordia pensando al lavoro che lo attendeva.

Erano ormai le undici, la foschia sul canale era né più leggera né più spessa di prima e per via incrociò solo qualche barchino. Si accese la sigaretta ultraleggera di Tania e dopo appena tre tiri la gettò in acqua schifato, chiedendosi come si potesse fumare una tale porcheria.

Passò accanto alla candida e lucente chiesa dei Miracoli e si fece un rapido segno della croce più per abitudine scaramantica che per fede, poi accostò per prendere finalmente un pacchetto delle sue sigarette al distributore automatico posto nei pressi della facciata di San Zanipolo, la chiesa più grande di Venezia, e infine riprese la strada verso casa. La spalla gli doleva ancora.

Meno di prima, ma gli doleva ancora.

Dario sarebbe passato a prenderlo a mezzanotte con la sua barca e insieme sarebbero andati in laguna, all’isola di Santa Maria della Grazia. Dove li avrebbe attesi Giorgio col quale sarebbero andati a fare la giostra, sperando che andasse tutto bene e che non li sgamasse nessuno: né i velocissimi e piatti Bso dei carabinieri e della finanza, né, peggio ancora, i “Barracuda”, così come era chiamata la terribile banda di vongolari criminali che pescava in quella zona proibita. Gente pronta a tutto con barche superveloci, radar potentissimi e vedette sparse ovunque, con i loro mozzi albanesi che scivolano nei canali volando a 40 o 50 nodi.

Si accese una cicca, riprese il viaggio verso Castello e finalmente, dopo essere passato sotto ventiquattro ponti, arrivò in Calle del Lion, dove viveva in un vecchio appartamento pregno di umidità. Erano le undici e mezzo, attraccò la patanella ed entrò in casa per prepararsi: suo padre era a letto da un pezzo e l’unico rumore che spadroneggiava in tutta la casa era quello del grande orologio che stava sopra la madia in salotto, il cui pendolo oscillava continuamente di qua e di là senza mai fermarsi. Era un oggetto al quale il vecchio teneva tantissimo, un ricordo di famiglia, ma Alvise non lo poteva vedere e soprattutto non lo poteva sentire. Un giorno o l’altro l’avrebbe fatto sparire, quel pendolo maledetto, magari gettandolo e affondandolo in laguna, così finalmente avrebbe taciuto per sempre.

Entrò in camera, aprì la serratura di un vecchio comodino consumato dai tarli e ne tirò fuori dei rotoli di banconote di grosso taglio tenute insieme con dei banali elastici gialli.

Voleva controllare che ci fossero tutte: c’erano sessantamila euro e rotti. Tanti soldi. Tantissimi.

Nemmeno lavorando per anni e anni come un mulo al Petrolchimico sarebbe riuscito a risparmiare tutti quei quattrini, figuriamoci a fare il facchino a piazzale Roma. La cosa pazzesca era che quella somma l’aveva racimolata in pochi mesi, lavorando sì e no una decina di volte, per qualche ora notturna. E se tutto fosse andato bene anche quella notte ne avrebbe fatti altri cinque, forse addirittura diecimila.

Ripose tutto al suo posto e richiuse il cassetto a chiave.

Undici e tre quarti.

Si vestì pesante, si ricoprì con una tuta cerata scura che lo faceva assomigliare a un sub e calzò dei grossi stivaloni impermeabili, poi prese i guantoni da pesca, le sigarette e l’accendino.

Mezzanotte meno dieci.

Fuori si sentì borbottare il motore della barca di Dario.

Alvise respirò a fondo e uscì.

***

PARTE III

Gambling at roulette table
Gambling at roulette table

I due si diedero il cinque e salparono percorrendo molto lentamente tutto il Rio della Pietà in silenzio, chiusi nei loro pensieri.

Più avanzavano e più le luci gialle dei lampioni nelle calli e nelle fondamenta ai loro lati apparivano soffuse e attutite dalla foschia che si adagiava ovunque come un lenzuolo leggero. L’umidità era così fastidiosa che percolava le ossa e faceva sembrare l’aria pesante e vecchia di mille anni.

A ovest, una pallida luna piena offuscata dalla bruma sembrava vegliare la sonnolenta laguna sotto il suo sguardo inutile e blando.

Dopo qualche minuto i due sbucarono nel Bacino San Marco, quindi attraversarono il Canale di San Giorgio Maggiore attenti a non cozzare con un paio di vaporetti e infine, passando accanto alla basilica illuminata, puntarono alla piccola isola di Santa Maria della Grazia, nota come “La Cavanella”. Una volta arrivati, Dario spense il motore e legò la cima a un porticciolo.

Rispetto ad Alvise era un ragazzo smilzo e ossuto, con una vita alle spalle fatta di esperienze poco raccomandabili come truffe, furti e rapine. Era stato varie volte in galera, ma alla fine se l’era sempre cavata con poco e una volta fuori aveva ricominciato a bazzicare i peggiori ambienti di Castello.

«Che ore fai?» chiese ad Alvise.

«Mezzanotte e venti ».

«Mancano dieci minuti, Giorgio arriverà da un momento all’altro».

Scesero dalla barca e si accesero una cicca.

Dario disse:

«Gustiamocela bene, che una volta laggiù non potremo più fumare».

« Già» disse Alvise.

Dario si lisciò la barbetta ed estrasse una Luger P08 dal suo giubbotto controllando che fosse carica. Ne accarezzò la canna. In quel momento sentirono il rumore scoppiettante di una barca che proveniva dalla Giudecca.

Quando questa fu a una cinquantina di metri dal porticciolo, balenò tre rapidissimi lampi di luce. Brevi colpi di faro. Era il segnale concordato. Era Giorgio.

Dario prese una torcia elettrica dalla sua barca e gli rispose allo stesso modo. In quel momento la mezzanotte e mezza era passata da qualche minuto.

Giorgio aveva una quarantina d’anni, per lo più passati tra il bacaro sotto casa alla Giudecca e il mercato ittico di Rialto dove era pagato per scaricare cassette di pescato ogni mattina che Dio mandava sulla laguna.

Portava i capelli lunghi legati dietro la nuca, era grosso come un bestione e non rideva mai. Mai. Probabilmente nessuno l’aveva mai visto o sentito ridere, tanto che il suo soprannome era “Musoduro” e girava sempre armato con la sua Beretta M9.

La sua barca sembrava un’astronave: era un enorme e spazioso drifting con un motore da 150 cavalli e con a bordo un grosso ecoscandaglio e quegli attrezzi giganti che aspirano tutto dal mare, numerose gabbie, draghe vibranti, rastrelli rotanti, turbo soffianti e una gigantesca pompa idraulica. Più varie corde grosse come polsi, reti pesanti, due minitorce elettriche da usare solo in caso di necessità e un piccolo tender dove poter caricare la merce in più, se la pesca fosse stata buona.

«Andiamo, che le vongole ci aspettano!» disse con la voce grumosa di chi dice una frase al giorno.

Salirono tutti sul suo drifting chiamato Doge e partirono con il motore al minimo. Piano piano lasciarono l’approdo della Cavanella e di lì a qualche minuto si inoltrarono nella laguna oscura pressata da un filtro d’aria bianca che ondeggiava come il pesante incenso di Tania.

Il cuore di Alvise batteva sempre più forte. Sentì le mani e i piedi sudare e i suoi pensieri presero a rincorrersi in mille premonizioni: correvano veloci, comparivano in un attimo, si agitavano, sparivano improvvisamente. Così, come falene sotto la luce di un lampione, d’estate. Si rendeva conto che il rischio che stavano correndo era alto, capiva che andare a raschiare il fondale della laguna in quella zona proibita era un affare molto pericoloso, sapeva che, se i Barracuda li avessero sgamati, lui e i suoi due compari avrebbero corso dei guai molto seri. Non era uno scherzo.

Per questo sudava, per questo aveva degli strani presentimenti, per questo aveva già deciso in cuor suo che quella sarebbe stata l’ultima volta. L’ultima. Certo, c’era da guadagnare bene, molto bene, a fare “la cresta” a quei criminali: megavongole velenose pescate in quell’acqua morta e tossica di fronte al Petrolchimico, vicino agli scarichi industriali. Un affare da parecchi soldi, come ben sapevano i Barracuda, i quali organizzavano un vero e proprio business criminale per catturare le vongole più grosse, quelle più contaminate: migliaia di tonnellate smerciate in terraferma, ma anche a Roma, Milano, Napoli.

Un fatturato illegale di centinaia di milioni di euro che poi spariva nei casinò della Slovenia o del Montenegro, in lussuosi alberghi e beauty farm sulle Dolomiti, in villaggi turistici in Thailandia.

***

PARTE IV

Italy, Venice, lagune near Marghera, the industrial district.
Italy, Venice, lagune near Marghera, the industrial district.

I tre a bordo del Doge si diressero verso Fusina, imboccarono il Canale delle Scoasse e si immersero nel buio della notte. Dario teneva gli occhi chiusi e sembrava che pregasse, Giorgio scrutava le luci del Petrolchimico all’orizzonte e Alvise continuava a grattarsi il collo e toccarsi la spalla dolorante: non riusciva a sgomberare la testa da quelle fastidiose premonizioni e anche se cercava di non pensarci e guardava l’attrezzatura che era riposta ai suoi piedi, una serie di figure mostruose gli si accavallava nei pensieri in un turbinio di immagini grottesche e paurose. Gli vennero in mente l’odore persistente dell’incenso, il pendolo estenuante dell’orologio in soggiorno e le teste ciondolanti dei giudei nella yeshivà. Per un attimo gli sembrò persino di soffrire il mal di mare. Cosa impossibile, pensò.

A un certo punto, Giorgio virò a destra e prese il Canale Fasiol. L’una meno un quarto. Sembravano una piccola milizia pronta a un blitz, a un assalto militare preciso, puntuale ed efficace.

Se le cose fossero andate bene come le volte precedenti, in meno di dieci minuti avrebbero pescato una quarantina di chili di vongole. Dopo due ore ne avrebbero caricata mezza tonnellata. Tutte tossiche, cariche di diossina, di olii per il raffreddamento dei trasformatori elettrici, di pesticidi. Dopo un paio di giorni qualcuno le avrebbe acquistate in pescheria o mangiate in qualche ristorante o trattoria, con tanto di marchio di provenienza, documento di trasporto e certificato sanitario falsi, procurati abilmente da Giorgio per mezzo di sostanziose mance a chi di dovere. Se tutto andava liscio in una notte si potevano guadagnare anche quarantamila euro, alla faccia dei Barracuda, i veri professionisti di questo racket che produceva soldi come e più della droga. Milioni e milioni di euro. Cash.

Era la sporca guerra della laguna, un vero far west.

La loro barca intanto proseguiva verso il centro del bacino col motore che borbottava calmo e passava accanto alle bricole disseminate qua e là per delimitare i canali di navigazione. Queste apparivano all’improvviso e spesso sulla loro sommità vi stavano posati dei gabbiani che sembravano spettri, tra i radi banchi di foschia che andavano e venivano come fantasmi. Attorno a loro vi era un forte odore di decomposizione e acqua putrida, una puzza ributtante di pesce morto e alghemarce, e si vedevano qua e là sacchetti di nylon, pezzi di legno galleggianti e bottiglie di plastica alla deriva, in balia di maree capaci solo di alzarsi e abbassarsi, ma mai di fluttuare, proprio come se quella enorme pozza d’acqua semistagnante fosse un enorme lago di petrolio denso e piatto.

Arrivati nel mezzo della laguna, Alvise alzò lo sguardo e si guardò intorno: in quel momento la nebbiolina era poca e alle sue spalle si vedeva Venezia illuminata nella notte, con il campanile di San Marco in fondo che svettava sui tetti rossi della città.

Finalmente l’ultimo tratto. Giorgio virò nel Canale Vecchio di Fusina e si avvicinò al luogo X, posizionato esattamente nel mezzo della laguna, tra Venezia e Marghera, come sospeso tra la città più bella e quella più brutta del mondo: da un lato le magiche luci sulla storia, sull’eterna bellezza, sull’eleganza architettonica e artistica della sposa del mare; dall’altro i freddi fari alogeni sparati per illuminare a giorno uno dei più grandi poli dell’industria chimica europea. Come ritrovarsi a metà strada tra il paradiso e l’inferno.

Giorgio puntò dritto e sicuro verso la secca, guardò il display dell’ecoscandaglio e poi spense il motore. Mentre il drifting scivolava lentamente ancora per una ventina di metri, tutto piombò in un profondo e inquietante silenzio.

«Ci siamo!» gorgogliò la sua voce.

Dario si alzò in piedi, afferrò la cima e gettò l’àncora proprio davanti al canale dove le industrie chimiche rovesciano i loro scarichi; Alvise reclinò il motore della barca verso il basso e lo fece immergere quasi totalmente nell’acqua torbida, quindi prese un grosso palo di ferro, lo legò al motore e lo conficcò di peso nel basso fondale con tutta la forza che aveva. Avvertì un dolore atroce dentro la spalla che si propagò nel torace come una forte scarica elettrica, ma nonostante tutto tenne duro e si preparò all’operazione più importante.

Silenzio.

L’una e qualche minuto. Attorno a loro lo sciabordio delle piccole onde nere che si infrangevano sullo scafo.

Un senso di irrequietezza pervadeva tutto l’ambiente circostante. Un senso nero come nera era la notte profonda che li avvolgeva. Nero come nera era l’acqua sotto i loro piedi. Nero come la sensazione che provò Alvise brandendo e incastrando l’asta di ferro al motore.

«Fatto» gli chiese Giorgio a bassa voce.

«Fatto!»

Dario fece un cenno di conferma a Giorgio, afferrò una grossa gabbia e la calò a poppa, a fianco del motore.

«Via!» disse.

***

PARTE V

effervescent water with rock in the Gleirschklamm, Tyrol
effervescent water with rock in the Gleirschklamm, Tyrol

Giorgio girò la chiave nel quadro elettrico e riaccese il potente motore del Doge. A quel punto le due eliche iniziarono a mulinare vorticosamente scavando sulla sabbia e iniziando a strappare via tutto quello che c’era sul fondale. Alvise rimase aggrappato all’asta di ferro con tutte le forze che aveva, mentre Giorgio accelerava sempre più e Dario affondava sott’acqua la gabbia e ne preparava un’altra; in un lavoro di squadra perfettamente collaudato nelle varie mansioni individuali. Senza dire una parola i tre si concentrarono sulle proprie azioni e procedettero così per qualche minuto, finché a un certo punto, finalmente, tutti i loro gesti raggiunsero l’obiettivo prefissato e la barca iniziò a fare la giostra: la chiglia del Doge infatti cominciò a muoversi e a girare su se stessa, prima lentamente, poi più forte, sempre più forte, in una sorta di vorticoso giro della morte. Le eliche del fuoribordo presero a quel punto a sollevare una enorme quantità di melma schiumosa. Giorgio tirò su a fatica la prima gabbia: era già piena di vongole. Spesse, grosse e gonfie dell’acqua calda e inquinata.

Cinque giri, nove giri, sedici giri di giostra. Una gabbia, due gabbie, tre gabbie stracariche di vongole.

Lontano, da una parte e dall’altra, le luci di Venezia e di Porto Marghera. Attorno a loro, il nulla. Sotto di loro l’acqua sporca che si muoveva come se avesse dei conati e vomitasse vongole tossiche a chili, a quintali, con la schiuma dell’acqua e del fondale che risaliva con tutto il suo odore di marcio e di morte. Sopra di loro, le luci intermittenti dell’ennesimo aereo di linea pronto ad atterrare al Marco Polo.

Dario azionò un’altra pompa aspiratrice e cominciò a rovesciare decine di chili di molluschi direttamente a bordo della barca: uscivano dalla laguna come monete da una slot machine impazzita, a getto continuo, sparate da un idrante che anziché sputare acqua sputava vongole.

L’una e venticinque. Il Doge si stava riempiendo.

Alvise strinse i denti e portò lo sguardo al cielo, verso l’aereo. Non sapeva quanto sarebbe stato ancora in grado di resistere: la spalla gli sembrava frantumata, come se ci avessero iniettato un cocktail fatto di schegge di vetro, aghi e peperoncino calabrese.

L’una e mezzo. Il Doge era già stracarico di frutti di mare e Alvise aveva le vene del collo e quelle sulla fronte sul punto di scoppiare.

L’una e trentuno. Dario scorse un faro in lontananza.

Lo guardò sospettoso per un istante e bloccò le operazioni.

Vide che quel faro si avvicinava sempre più, a una velocità incredibile.

«Molla tutto!» urlò ad Alvise e poi, rivolto a Giorgio: «Arriva qualcuno! Via! Via!»

Giorgio e Alvise guardarono verso sud e capirono che non era affatto uno scherzo.

Allora Giorgio spense per un attimo il motore e quando la barca cessò di girare si rese conto che quel fascio di luce non era quello dei fari in dotazione ai BSO della Guardia di Finanza. Il che probabilmente era peggio.

Bestemmiò in cagnesco e ordinò agli altri due di muoversi.

«I Barracuda! Dai, cazzo, dai! Tirate su tutto e sdraiatevi, che adesso si vola!» E bestemmiò ancora una volta.

Dario tirò a bordo l’ultima gabbia carica di molluschi e aiutò Alvise a sganciare il palo di ferro dal motore. A quel punto il fascio di luce li aveva quasi raggiunti e infatti iniziarono anche a sentire il rumore rombante di quella barca superveloce che viaggiava dritto verso di loro.

«Corri! Corri!» urlò Alvise sdraiandosi a terra e facendosi un veloce segno della croce. Dario iniziò a bestemmiare a raffica e tirò fuori deciso la sua pistola. Giorgio accese il motore e partì a manetta dalla parte opposta, verso il Ponte della Libertà che si doveva stagliare lontano davanti a loro, ma che ancora non si vedeva.

Sebbene il Doge sfrecciasse come un razzo, il fascio di luce alle loro spalle si fece sempre più vicino e improvvisamente da uno diventarono tre.

«Ma quanti cazzo sono?» urlò Giorgio con la coda di cavallo al vento mentre procedeva a quasi 50 nodi come se quello fosse un videogioco e anziché la loro vita ci fosse in ballo un game over.

«Più veloce! Più veloce!» sbraitò Dario, impugnando la sua Luger.

Alvise stava disteso tra le vongole puzzolenti e guardava l’immagine della luna languida e falsa che sussultava nel suo campo visivo in preda agli sbalzi dello scafo. Sapeva che, se si fosse trattato dei Barracuda, lui e i suoi compagni avrebbero dovuto prepararsi al peggio. E in fondo sapeva benissimo che quelli lì erano proprio loro, ne ebbe la certezza quando dalle tre barche al loro inseguimento iniziarono a sparare raffiche di mitra e pistolettate al loro indirizzo. Improvvisamente, come per una magia nera, il dolore alla spalla diventò soltanto un lontano ricordo.

Giorgio e Dario iniziarono a rispondere al fuoco meglio che poterono, come due sardine che provano a sfuggire a uno squalo assetato di carne, mentre il Doge sembrava dovesse decollare da un momento all’altro e quelli si facevano sempre più vicini, sempre più vicini.

Sempre più vicini.

***

PARTE VI

Aircraft taking off from Heathrow passing in front of full moon, London, England, United Kingdom, Europe
Aircraft taking off from Heathrow passing in front of full moon, London, England, United Kingdom, Europe

L’inseguimento si fece forsennato, con Giorgio che pilotava zigzagando in una corsa cieca e sfrenata tentando di schivare bricole, secche, velme e pallottole che ronzavano come api passandogli a pochi centimetri dalle orecchie.

Spari, spari, spari. Da una parte e dall’altra. Spari, spari e ancora spari, finché d’un tratto, proprio mentre il Doge stava lambendo l’isola di San Giorgio in Alga, una pallottola colpì alla testa il suo pilota. Questi mollò la presa del volante e cadde in acqua come un sacco di cozze. Il motore del drifting si placò improvvisamente e in un istante l’imbarcazione rallentò fino a fermarsi, facendosi subito raggiungere dagli inseguitori che nel frattempo continuarono a sparare come ossessi e urlare come bestie inferocite.

Anche Alvise fu colpito di striscio a una coscia e presto dai pantaloni cerati iniziò a uscire del sangue.

Con uno scatto di reni si alzò e si gettò in acqua come un pesce, con la speranza che nessuno l’avesse visto.

Scese sul fondale e cercò di nuotare in apnea, allontanandosi dalla barca e cercando di raggiungere la vecchia isola abbandonata, all’interno della quale avrebbe cercato di nascondersi.

Bevve accidentalmente dell’acqua torbida: il suo odore fetido e il suo sapore acido e salmastro gli ricordarono l’odore del pesce putrefatto. La gamba gli bruciava e sentiva che le forze gli stavano venendo meno, quando a un certo punto, sopra di sé, urtò qualcosa di grosso. Capì che si trattava del cadavere di Giorgio che galleggiava inerme con la testa squarciata. Un istintivo spirito di sopravvivenza gli fece tener duro. Avanzò ancora per qualche metro, fino a che riuscì ad approdare sull’isola. Uscì dall’acqua arrancando, cercò di trovare il fiato che sembrava non arrivare più, poi guardò verso il Doge soffusamente illuminato dalla luna beffarda.

Sentì alcuni uomini gridare contro qualcuno e poi sparare. Subito dopo avvertì il tonfo in acqua di un peso morto. Capì che si trattava dell’esecuzione di Dario. Poi la luce di un faro lo investì come il sole di mezzogiorno.

«Ecco il terzo! È scappato sull’isola!» gridò una voce spigolosa.

Una delle barche si mosse e puntò la prua verso il molo abbandonato.

Nel tentativo di scappare, Alvise cadde a terra più volte e alla fine si addentrò nella fitta e impervia boscaglia trascinandosi a fatica e strisciando ripetutamente tra cocci di vetro, vecchi sacchi della spazzatura e metalli arrugginiti. Dapprima sentì la barca approdare al molo e subito dopo il passo spedito di alcuni uomini. Raggiunse i ruderi del vecchio monastero e, con il cuore che sembrava dover esplodere da un momento all’altro, si spinse ancora avanti e si nascose all’interno delle mura fino alla vecchia cripta diroccata. Intanto la luce delle torce elettriche dei suoi aguzzini si faceva sempre più forte man mano che essi avanzavano braccandolo. Alvise guardò la boscaglia nera attorno a sé e la sua mente fu attraversata da un turbinio di immagini senza alcun senso.

Se ti perdi tuo danno, pensò .

«È qui! È qui!» urlò uno di quelli.

Poi una torcia lo scovò e lo accecò di punto in bianco.

«Figlio di puttana, le vongole sono nostre!» berciò una seconda voce.

Alvise sentì caricare una pistola.

«Settimo comandamento: non rubare! » disse il primo, e poi, rivolgendosi a un altro: «Sparagli, Alkan!»

«No, vi prego!» disse Alvise con la voce tremula.

In quel frammento di secondo gli parve di sentire l’odore della pelle di Tania, dei suoi seni, delle sue labbra, e un istante dopo ebbe il peggior fremito della sua vita: la certezza che tutto sarebbe finito lì e che poi non ci sarebbe stato più nulla. Altro che il sogno di andarsene per sempre da Venezia con lei. Se ne sarebbe andato per sempre dal mondo. Solo. Come il più schifoso dei cani randagi. Ebbe la sensazione di aver vissuto l’intera vita in funzione di quell’unico, miserabile e beffardo momento.

«Avanti, Alkan, che aspetti?» disse la voce spigolosa, quella che comandava.

«Lasciatemi vivere!» balbettò un’altra volta Alvise, « ... Lasciatemi vivere... ».

Uno sparo. Un altro sparo. Le due eco si propagarono nella boscaglia e poi sulla laguna lì intorno.

Qualche secondo più tardi, alcuni gatti selvatici nascosti tra i rovi emisero dei lamenti spaventosi.

Gli uomini che erano venuti fin lì tornarono al porticciolo dove li aspettavano gli altri compagni.

Con gli occhi rinsecchiti rivolti verso l’alto, Alvise vide l’immagine sfocata di un enorme aereo di linea che in quel momento attraversava lentamente il cielo.

Provò a sollevare una mano per afferrarlo, aggrapparvisi con un estremo sforzo e volare via per sempre da quella città, mentre dalla sua bocca usciva l’ultimo rantolo di vita. Poi più nulla.

E sulla laguna tornò il solito, profondo silenzio. —

 

Copyright © 2013 Matteo Righetto

Pubblicato in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova