Malatesta, mezzo secolo con il coro Tre Pini
Un nome legato da cinquant’anni alla storia di Padova

Come nasce Gianni Malatesta musicista?
«Ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente dove la musica è sempre stata di casa. Mio padre, che pure era un funzionario della Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, era diplomato al conservatorio e suonava il violino, mia madre invece amava il pianoforte. Eravamo sei fratelli, in tre suonavamo, così spesso in casa si organizzavano mini concerti tra noi. In quegli anni, in piena depressione economica, la musica riempiva le nostre vite. Iniziai a suonare il piano a sei anni, ma a me piaceva molto il canto. Scoprii di avere una voce bella a scuola, dai padri giuseppini del Patronato del Santo, allora in via Patriarcato, dove fino alla V elementare facevo parte del coro».
Come si è avvicinato all’ambiente dell’Antonianum?
«Subito dopo, a 11 anni. C’era un piccolo gruppo, diretto da padre Achille Colombo, che iniziai a frequentare. Finita la guerra, poi, alla Scuola di religione di Prato della Valle, si riunivano i ragazzi del coro del Cai, guidati da padre Nazareno Taddei che poi venne trasferito a Roma. A quel punto, ero l’unico a conoscere la musica e mi chiesero, nel 1949, di diventare istruttore del coro. La nostra base diventò casa Bolzonella in piazza del Santo. Il reclutamento dei coristi aveva un canale privilegiato proprio all’Antonianum che sotto la guida di padre Messori, diventerà collegio universitario».
Dove aveva acquisito l’esperienza di conduzione di un coro?
«Io sono un autodidatta, ho studiato per conto mio, ma col tempo mi sono confrontato con maestri come Claudio Scimone e Wolfango Dalla Vecchia con i quali ho sempre avuto un rapporto anche di amicizia personale oltre che di stimolo nel mio lavoro. Ho sempre rifiutato l’idea di conseguire il diploma al conservatorio, credo di non essere portato per quel tipo di insegnamento. Agli inizi, comunque, iniziai come maestro conduttore dell’orchestra dell’Aeronautica di Padova, fu divertente».
Come nacque il coro Tre pini?
«Rimasi fino al 1957 in questo ruolo al Cai. Fu un periodo che servì per curare sempre più la vocalità, dal ritmo all’intonazione, ma anche per allargare il repertorio ai canti popolari di varia tradizione e cultura. E questo fu un primo grande cambiamento. Fino ai primi anni Cinquanta il coro, in Italia, significava soprattutto montagna, significava riproporre quei canti alpini, spesso struggenti e carichi di dolore, perché legati molto alle sofferenze dei soldati in guerra. Era quella, del resto, la grande tradizione ereditata dal coro Sat di Trento, il più antico, un’autorità indiscussa in quel periodo. Fu verso la fine degli anni Cinquanta che mi sentii pronto per staccarmi dal Cai e tentare un’avventura diversa. Alla Scuola di religione si ritrovavano molti giovani universitari che già cantavano per conto loro. Qualcuno dal Cai mi seguì e partimmo».
Il nome venne naturale, visto l’ambiente nel quale era maturata l’iniziativa?
«Ci trovammo seduti sulla panchina, sotto i tre pini, padre Mario Merlin, padre Luigi Pretto ed io. Decidemmo in quel momento, di comune accordo, di chiamare così il coro. E l’1 gennaio 1958 venne ufficialmente costituito questo gruppo, che inizialmente nacque come coro di montagna».
Cosa la spinse a cercare nuove soluzioni artistiche, ad uscire dagli schemi tradizionali del coro di montagna?
«Fu un’intuizione rivoluzionaria per quegli anni. Perché dopo i canti armonizzati da altri, iniziai con le mie armonizzazioni, sia pure di canti tradizionali e storici. Vedemmo che il pubblico apprezzava, a volte ben più degli stessi giurati in qualche concorso e allora progressivamente decisi di estendere queste armonizzazioni ad altri repertori. I ragazzi del coro Tre Pini, composto da persone intelligenti e duttili, dal modulo vocale morbido e flessibile, impararono a cambiare velocemente, ad avere la curiosità di andare oltre, di sperimentare nuovi canti popolari o d’autore, sempre di alto contenuto poetico. Siamo passati poi alle mie composizioni per coro e, nell’ultima fase, alla produzione di pezzi jazz piuttosto che di brani di Gershwin. Per finire abbiamo armonizzato canzoni dei Beatles o brani classici come l’Aria sulla quarta corda di Bach. Sono il risultato delle esperienze delle tournées nelle università americane, delle trasferte in Australia e in Canada degli anni Ottanta».
Lei è stato definito un caposcuola nel mondo coristico proprio per questa sua continua ricerca di mutamento? Il maestro Claudio Scimone ha parlato di sonorità meravigliosa e inconfondibile che contraddistingue il Tre Pini.
«Mah, sicuramente critici, anche autorevoli, hanno individuato la singolarità espressiva del Tre Pini. Mi piace riprodurre, con le sole voci maschili, l’effetto del coro misto, mi piace sperimentare le potenzialità delle voci maschili allargando al massimo la gamma dei suoni giocando con i timbri, con gli impasti, con le risorse che la tecnica mette a disposizione, allargando per ottenere appunto ciò che sarebbe possibile solo da un coro misto, che è il massimo della espressione corale. E’ come cercare di battere un record nello sport. Anche nel nostro campo ci sono limiti: si fa, si prova, si valuta. Un pezzo se è brutto sparisce, ma se è bello resta».
La sua più grande soddisfazione?
«I dieci concorsi nazionali vinti e avere ancora oggi lo stesso entusiasmo di cinquant’anni fa».
Il maggiore rammarico?
«Ho scritto molte composizioni, ma con il coro ne abbiamo eseguite poche. Avrei voluto farne di più».
C’è un dolore particolare nella sua storia?
«Sì, vedere spegnersi una grande fiamma, quella dell’Antonianum. La vendita del complesso del collegio, della chiesa, del teatro è stato per me un grande dolore. Io frequento questo ambiente dal 1937, ho visto tutto il positivo e il bello che l’Antonianum ha saputo dare e continua a dare alla città. Pensare che si trasformerà in hotel o in mini appartamenti di lusso mi fa male, è un’offesa per Padova. Ora vedo dei pentimenti, forse però tardivi».
Una città ricca come Padova ha assistito in silenzio alla cessione di uno dei suoi simboli. Poteva diventare un centro di eccellenza culturale, ma l’Università ha fatto dietro-front. Non una banca, non imprenditore si sono fatti avanti. A Treviso non sarebbe successo di sicuro...
«Il mio è un legame profondo con l’Antonianum, il coro Tre Pini è l’Antonianum. Per questo mi crea sofferenza, come credo a tanti padovani che qui hanno passato gli anni più belli della loro vita e che da questo ambiente hanno ricevuto molto».
Il maestro Scimone, in una sua testimonianza, ritiene il coro Tre Pini uno dei grandi doni che Padova ha fatto al mondo.
«Nei nostri concerti in giro per il mondo siamo stati in effetti in qualche modo ambasciatori della città. Ci siamo accorti che i nostri connazionali emigrati, attraverso le canzoni del coro, finivano con il ritrovare un forte legame con la loro città».
E Padova, le sue istituzioni, vi sono state riconoscenti?
«A giudicare dall’attenzione e dalle platee piene quando ci esibiamo, direi di sì. Il Comune mi ha consegnato pure il sigillo della città e il riconoscimento di cittadino onorario. Mi ha fatto molto piacere».
Cosa rappresenta il coro Tre Pini per il maestro Gianni Malatesta?
«E’ la mia vita. In questo coro, composto da stupende persone, da grandi amici, ho realizzato le mie idee musicali. Ho scritto la musica, l’ho insegnata, l’ho diretta e l’ho documentata. Quando dirigo il coro lo considero come una sorta di pianoforte, ma intelligente».
Qual è il messaggio che trasmette il coro Tre Pini?
«Un messaggio di amicizia tra uomini prima di tutto, che passa attraverso un valore musicale accettato universalmente, a differenza di altre forme musicali che possono piacere o meno».
Vi esibite spesso in montagna, attorno alla magia delle Dolomiti, anche con suggestivi concerti in alta quota sulle Tofane. Cosa rappresenta per lei la montagna?
«Sulle vette ho trovato molta ispirazione e la montagna rappresenta la grande armonia della natura con l’uomo. Il canto ne è il suo complemento. Non a caso la sigla del nostro coro è Oh montagne».
E’ immaginabile il coro Tre Pini senza Gianni Malatesta?
«Domanda difficile, mi dicono di no. Io cerco di trasmettere però il mio messaggio, sicuramente il coro Tre Pini viene associato molto al mio nome, è innegabile».
Questo è Gianni Malatesta. Ma è anche l’uomo che oltre ai tanti premi vinti, meriterebbe forse un autorevole riconoscimento alla sua grande carriera: di maestro musicale certo, ma attraverso le sue mani e le sue armonie, anche maestro di vita per tanti giovani.
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