Marina Salamon: «La crisi della banche popolari nasce dagli errori degli imprenditori»

L’imprenditrice della “famiglia Doxa” analizza gli scenari dopo la protesta dei Sì-Tav: Veneto, disilluso ormai non è più la California 

«Chapeau a Torino, scesa in piazza per dire sì alla Tav. Mi ricorda la marcia dei 40 mila “quadri” Fiat degli anni Ottanta, la riscossa dei ceti medi. I partiti tradizionali sono in crisi e quando la società civile si organizza è un bel segnale».

Marina Salamon ama remare controcorrente: l’ha fatto nel 1991 quand’era nel Wwf e attaccò Ansaldo, poi è entrata in giunta con Massimo Cacciari a Venezia e qualche anno dopo si è schierata a fianco di Massimo Carraro, l’imprenditore che denunciò le anomalie del monopolio degli appalti del Mose, nella sfida per la Regione contro Galan nel Duemila. L’ultima battaglia è contro la gestione di Cassamarca a Treviso.

«Solo Gianni Gajo ha trovato il coraggio di sostenermi», dice lei. A 24 anni, con la laurea in Storia dell’economia a Ca’ Foscari, ha fondato Altana, che produce abbigliamento per bimbi nel segmento luxury fashion. Sposata, madre di 4 figli, vive a Verona e siede nel cda di Banca Ifis, di Morellato Spa ed è vicepresidente di IllyCaffè. Dal 1991 la sua famiglia controlla Doxa, leader nelle ricerche di mercato.

Che segnale arriva da Torino e da Roma, la società civile esce dal letargo e i partiti sono all’angolo: come mai?

«Quando la società civile si esprime è sempre un segnale incoraggiante: donne borghesi di diverse culture hanno deciso di mobilitarsi per ribadire che la Tav Torino- Lione va realizzata. Sono ambientalista e non posso accettare che il traffico merci Italia-Francia corra sulle autostrade e non sui treni, come avviene con la Svizzera: il rapporto è di 1 a 10. Poi c’è il rischio di pagare le penali all’Ue. I partiti tradizionali sono in crisi tranne la Lega che viaggia al 31-32% e raccoglie lo scontento dei delusi, ma i ceti produttivi hanno scelto una protesta educata e civile perché siamo entrati in una fase di profonda incertezza e di paura: mi viene in mente la marcia degli imprenditori a Treviso con Tognana a fine anni ’90. Le infrastrutture vanno completate anche in Veneto e Lombardia, la Tav e la Pedemontana sono fondamentali, mentre la Valdastico-Pirubi forse non sta in piedi se calcoliamo i ricavi dei pedaggi».

Il Veneto non è scosso da nessuna rivolta: come mai?

«Credo sia stato negativo nei secoli l’atteggiamento di essere troppo buoni e umili. Sono cresciuta a Milano, mi sono trasferita in Veneto e quando nel 1982 ho avviato la mia azienda, in ufficio mi dicevano: “comandi”. Io capivo il dialetto e questo comandi lo associavo a “mi no vao a combatar”.Io invece amo il conflitto, non accetto la sottomissione e sono convinta che nella vita non basta essere degli sgobboni. Ecco, in Veneto la Lega di Zaia è diversa da quella di Salvini e sa garantire servizi efficienti, come la sanità, senza aumentare la spesa pubblica ma con la razionalizzazione dei costi, mentre il governo centrale si muove su dinamiche opposte e aumenta il deficit. Anche il sindaco di Torino, Chiara Appendino, non sembra affatto un’estremista, ma poi deve fare i conti con la posizione nazionale del M5S che epura chi non condivide la linea, come a Parma con Pizzarotti».

Ma il Veneto è rimasto fermo al “comandi, sior paròn”?

«No, per carità. Quello è un ricordo di 40 anni fa. Mi preoccupa il fatto che eravamo straordinariamente ottimisti sul nostro futuro, il mitico Nordest era convinto di essere come la California, la settima potenza mondiale se presa da sola. Ora siamo disillusi dopo la crisi del 2008. La disoccupazione al 6% è molto bassa rispetto alla media italiana, il reddito è buono e il lavoro non manca ma è cambiato il clima. Siamo come una famiglia che ha messo tanti risparmi da parte ma non spende perché vede all’orizzonte una guerra e quindi ha paura. Il Veneto può ancora dare alle aziende le stesse possibilità di crescita degli anni Ottanta e Novanta? Forse la paura nasce da un benessere raggiunto? Certi automatismi dell’ecosistema Nordest si sono fermati».

Quanto ha inciso la crisi delle banche nella perdita dell’innocenza del mitico Nordest? Siamo a una battuta d’arresto?

«No. Basta osservare il traffico lungo la A4 Venezia-Milano per capire che la crisi è stata superata ma il contesto potrebbe peggiorare se ci saranno problemi politici da assetti nazionali: con lo spread non si gioca. Il rating nazionale ha un impatto reale sulle banche e sugli affidamenti, con effetti negativi sulla società. Non credo alle banche cattive e agli uomini buoni e innocenti. Veneto Banca e la Popolare di Vicenza erano guidate da uomini e sono entrate in crisi non per la mancanza di controlli nazionali ma per le decisioni prese dai Cda. Non ho mai aperto un conto né aziendale né personale in questi due istituti perché ho sempre considerato migliore l’offerta delle banche nazionali. Non amo i giochini alle “voemose ben” e gli amici che si prestano soldi l’un l’altro vanno contro le regole di mercato e si è visto il disastro. La regola dev’essere una sola: la meritocrazia con il rapporto qualità prezzo che vale anche per il pane. Il bel clima della provincia produce danni e ringrazio ancora i miei genitori che da piccola mi hanno fatto vedere “Signore e signori” di Germi: quel clima ce lo siamo un po’ portati dietro. L’abbraccio materno della vita in provincia dà sicurezza, mentre nelle grandi metropoli Usa la competizione è assoluta».

Troppo facile però scaricare tutto sui politici, la crisi delle élites coinvolge anche gli imprenditori o no?

«Certo. Ho sempre pensato che noi imprenditori siamo bravissimi, ma con la crisi delle popolari venete ho cambiato idea: gli imprenditori hanno votato i direttori generali e i Cda e chi governa una banca sa che corre delle responsabilità penali. Non è come un’azienda di biscotti. Le cariche sono in primis responsabilità e poi gratificazione. Questo vale anche per Cassamarca: anni fa ho criticato quella gestione disastrosa e mi sono sentita isolata, solo Gianni Gajo mi ha difesa e quello della fondazione di Treviso era denaro pubblico, gestito da un personaggio che non ha meriti particolari».

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