miseria peggio del covid è una condanna a vita

Malati di miseria: dal Covid si può guarire e si guarisce, con quella si rischia una condanna a vita. L’Istat, l’istituto di statistica, ci ha appena consegnato una foto devastante della condizione sociale del Paese: oltre due milioni di famiglie e cinque milioni e mezzo di persone vivono sotto la soglia di povertà assoluta.
Vuol dire che hanno a mala pena in tasca i soldi per comprarsi il minimo da mangiare, per mettersi qualcosa addosso, per pagare (e non sempre ci riescono) la casa e le bollette. Al resto devono rinunciare, e non è detto che sia il superfluo, anzi: niente medicine e cure per la salute, vi pare un optional?
È un contagio da Covid, anche questo: le cifre sono dello scorso anno, non andava così male dal 2005. Cinque milioni e mezzo di individui, come dire un italiano su dieci, come dire più della popolazione dell’intero Veneto messa assieme. Di questi, un milione trecentomila sono minorenni: condannati da subito a venire espropriati di futuro, senza cure adeguate, senza istruzione possibile, senza tutto quello che apparterrebbe di diritto alla loro età. Né il reddito di emergenza né quello di cittadinanza né la cassa integrazione sono riusciti ad arginare questa autentica slavina sociale. Anzi, quando cesserà a breve il blocco dei licenziamenti, lo tsunami sarà completo.
C’è un risvolto psicologico brutale, dietro questa ondata. Non siamo di fronte alla miseria classica: chi nasce povero, in qualche modo ci è addestrato. Impara a campare, sfruttando le varie reti sommerse di pronto soccorso offerte dal volontariato, e ricorrendo ai mille espedienti suggeriti dal passaparola della strada. Ma per chi povero ci diventa, dopo una vita magari tirata con i denti ma senza mai toccare con mano il bisogno, il contraccolpo è tremendo. Di colpo ti trovi a dover tendere la mano, mescolando bisogno e vergogna. Bussi con fatica a tante porte, ma le prime a rimaner chiuse sono quelle che prima ti venivano aperte quando “eri qualcuno”. Spesso nascono tensioni dirompenti dentro casa, e più di una famiglia si sfascia. A volte è l’anticamera di una tragedia. La solitudine diventa veleno.
Non sono fenomeni sommersi. Basta mettersi in coda a uno sportello Caritas dove si distribuiscono i buoni pasto o si dà un aiuto a pagare le bollette, oppure davanti a un locale delle Cucine Popolari a condividere un vassoio di cibo, e scambiare due parole con la gente in fila, per collezionare un campionario di storie di varia umanità. E non di clienti abituali, quelli di un tempo: sono nuovi poveri che dalla mattina alla sera si sono trovati naufraghi in un mare in tempesta. E proprio perché andrà peggio, un Paese che fino a ieri si andava autoconfortando con lo slogan dell’”andrà tutto bene”, non può rimanere inerte di fronte a questa deriva sociale, limitandosi al massimo alla carità.
Questi milioni di soggetti, non migliaia, non hanno bisogno solo di soldi. Certo, nell’immediato di quelli. Ma anche di una rete di protezione sociale, di ascolto individuale, di presenza delle istituzioni e della comunità; non si possono lasciar soli loro, ma neppure il volontariato che con tanta generosità e impegno li segue. Perché sono cittadini anche loro. E soprattutto, sono persone non numeri. E come tali, a ciascuna va garantito il più fondamentale dei diritti: quello di non essere considerati meno di un uomo. —
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