Bambini in provetta, ora pagano le Regioni. E il Veneto fa da apripista
Sono 27 le strutture totali, di cui otto quelle pubbliche. La dottoressa Andrisani (Azienda Ospedale Università di Padova): «Le coppie arrivano tardi»

Gratis per tutti e tutelata dal Sistema Sanitario Nazionale: la procreazione medica assistita (Pma) è entrata nei Lea, i livelli essenziali dell’assistenza, ovvero il minimo comune denominatore della sanità, quella serie di prestazioni che le Regioni sono obbligate a garantire ai loro cittadini, dietro il pagamento di un ticket.
Una svolta storica, avvenuta a breve distanza dai vent’anni della legge 40, conosciuta anche come “legge dei divieti”, tra le più avversate della storia della Repubblica.
I centri in Veneto
Se fino a ora in gran parte dell’Italia le coppie che si sottoponevano alla fecondazione assistita dovevano pagare di tasca propria, con tariffe dai 5mila euro in su, il Veneto insieme a Toscana e Lombardia era stato tra le prime regioni, già dieci anni fa, a decidere di rimborsare comunque queste prestazioni.
Con la gratuità prevista dai Lea, la Pma promette di far nascere così un bambino su 20: una folata d’aria calda nel pieno inverno demografico che, però, rischia di restare sulla carta se le Regioni non accelerano le convenzioni con le strutture private, che ad oggi reggono il sistema.

In Veneto sono 19 i centri privati, di cui solo uno accreditato, su un totale di 27 strutture che si occupano di Pma, con province come Venezia in cui dai dati dell’Istituto Superiore di Sanità emerge la mancanza totale di punti di riferimento pubblico. Nell’ultimo periodo, però, gli ospedali di Portogruaro e di Mirano-Dolo hanno attivato al loro interno una sede di primo livello per le inseminazioni intrauterine, ma l’Istituto non le ha ancora formalmente riconosciute.
Nel 2022 la Regione con una delibera ha attivato una rete per la Pma, strutturata sul territorio in Centri Hub Regionali (le Aziende ospedaliere universitarie di Padova e Verona), Centri Hub (Pieve di Cadore, Conegliano, Oderzo, Trecenta, Cittadella e Sant’Orso), Centri Spoke (Feltre, Castelfranco, Dolo, Portogruaro, Ospedale del Sacro Cuore don Calabria) e Ambulatori di prossimità.
«La rete permette ai pazienti di accedere al circuito pubblico», spiega la dottoressa Alessandra Andrisani, direttrice dell’Unità dipartimentale Pma dell’Azienda Ospedale di Padova, «Non credo che le strutture siano poche: la fecondazione assistita è un’attività ultraspecialistica ed è difficile trovare un’équipe preparata. Raddoppiare i centri non credo che migliorerebbe la qualità, anzi. Bisogna, però, rafforzare le strutture che ci sono».
I numeri
L’ultimo monitoraggio dell’Iss, di durata biennale a causa della lunghezza delle procedure di procreazione assistita, risale al 2022 e conta ben 2.647 coppie prese in carico, di queste 649 provengono dalla provincia di Venezia, 500 da Padova e 495 dal Vicentino.
«Rispetto al passato» spiega Andrisani, «l’infertilità è aumentata per due motivi: da una parte oggi hanno accesso alla gravidanza anche tutte quelle persone con patologie croniche, come l’endometriosi, o sopravvissute al cancro, e questa è una cosa positiva. Dall’altro, l’età media in cui le donne provano ad avere un figlio è più alta, spesso hanno superato i 38 anni e sappiamo che dopo i 35 c’è una perdita fisiologica di fertilità».
Il problema, però, è anche diagnostico: nonostante l’infertilità sia cresciuta e le tecniche affinate, la dottoressa sottolinea come ancora troppe volte i ginecologi sottovalutino il problema. «Capita frequentemente che le coppie arrivino da noi con tre o quattro anni di ritardo, perché i medici dicono loro di avere pazienza, quando sappiamo che le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dicono che, superati i 35 anni, se dopo sei mesi di tentativi la gravidanza non arriva, allora ci deve essere una diagnosi di infertilità».
Questo, inevitabilmente, si ripercuote sulla rete stessa: «Personalmente ho triplicato l’attività ambulatoriale, ma se le diagnosi venissero fatte nei centri di primo livello, noi potremmo concentrarci meglio sulla fecondazione in vitro», fa notare.
Procedure complesse, che richiedono tempi lunghi. Sul sito dell’Usl 6 Euganea si legge che l’attesa per la prima visita è di circa tre mesi, per l’inseminazione intrauterina o tramite donazione del seme ci vogliono due mesi dal primo colloquio, mentre per i trattamenti di secondo e terzo livello, cioè la fecondazione in vitro e tutte quelle procedure che necessitano di anestesia generale con intubazione, altri sette o otto mesi.
La battaglia legislativa
Se oggi la Pma è nei Lea, è anche grazie a una battaglia lunga vent’anni per il suo riconoscimento legislativo. La legge 40 venne approvata alla Camera nella notte del 10 febbraio del 2004 a scrutinio segreto con 227 voti favorevoli, 222 contrari e 3 astenuti in un clima feroce, entrata in vigore il 19 febbraio, confermata da un referendum senza quorum nel 2005, bocciata da medici e scienziati ma voluta tenacemente dalla Destra, dai cattolici integralisti e dalla Cei del cardinale Camillo Ruini.
Il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, il ministro della Sanità Girolamo Sirchia che, pentito, anni dopo avrebbe affermato che col senno di poi avrebbe agito diversamente e che cambiare la legge era stato giusto. Non era solo una normativa, ma un concentrato di proibizioni con lo slogan di “mettere fine al far west della provetta”, che trasformò le coppie infertili in migranti della procreazione: dal 2004 al 2014, quando la Corte Costituzionale dichiarò illegittimo il ricorso a donatori esterni di ovuli e spermatozoi, almeno centomila coppie in tutt’Italia siano state costrette all’esilio riproduttivo.
A che punto siamo, oggi? Ventuno anni dopo l’entrata in vigore della legge, la Pma è entrata sì nei Livelli essenziali dell’assistenza ma è ancora preclusa ai single e alle coppie omosessuali.
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