«Punire i colpevoli non può finire come per Giacomo Turra»

di PIERO INNOCENTI
Non so se si riuscirà a far emergere la verità sulla morte violenta di Giulio Regeni, 28 anni, avvenuta in un paese, l'Egitto, da troppo tempo assuefatto alla brutalità di violenze diffuse, anche istituzionali. Di certo l'autopsia e le prime dichiarazioni rilasciate dal procuratore Ahmed Nagi non lasciano dubbi: il giovane italiano è stato torturato e il corpo presenta segni di percosse e di coltellate in varie parti. Altro che incidente stradale come, vigliaccamente e stupidamente, hanno dichiarato alti esponenti della polizia egiziana! Questa truce vicenda ha fatto tornare alla mente quella, non meno tragica, di poco più di venti anni fa, quando, a Cartagena (Colombia), la notte tra il 3 e il 4 settembre 1995, veniva ucciso Giacomo Turra, nato a Belluno, giovane studente universitario di Padova.
Si trovava nella bella città colombiana per una vacanza studio, motivato anche dai suoi interessi storico-antropologici. Giacomo fu ucciso di botte dai poliziotti intervenuti su richiesta di alcuni avventori, in un ristorante cinese, perché il ragazzo sarebbe stato ubriaco e avrebbe dato in escandescenze. A questa versione si aggiunse, sin dall'inizio della vicenda, quella della polizia, secondo cui il giovane italiano, profondamente alterato per assunzione di droghe, si sarebbe procurato le lesioni sbattendo la testa ripetutamente contro le pareti del locale e sul pavimento.
Mi interessai della morte di Turra trovandomi, in quel periodo a Bogotà, come funzionario di polizia esperto antidroga in servizio all'ambasciata italiana. La morte violenta di un italiano, secondo le prime notizie giornalistiche, attribuita a intossicazione di cocaina, indusse l'ambasciatore ad inviarmi a Cartagena, per avere informazioni più precise. Il corpo di Giacomo, nudo, era nell'obitorio, a disposizione della Fiscalia locale ( ufficio del p.m.) che già aveva disposto l'autopsia. Diversi ematomi che apparivano sul collo, sul torace e sugli avambracci, mi parvero subito incompatibili con la versione di lesioni auto inflitte.
Ricordo bene quelle visibili sugli avambracci, tipiche di chi si era difeso da colpi portati dall'alto verso il basso (gli sfollagente che i poliziotti inizialmente negarono di avere al seguito). Successivamente, le valutazioni fatte anche da autorevoli medici legali italiani esprimevano forti dubbi che alcune lesioni, anche interne, fossero state prodotte dallo stesso Turra che si sbatteva sul pavimento o contro le pareti del locale. Sisto Turra, padre del giovane e stimato primario del reparto di ortopedia dell'ospedale di Padova, accompagnato a Cartagena dalla sorella Maria Battistina, non riconobbe il cadavere del figlio tanto era sfigurato e decise per la cremazione anche per rispettare la volontà di Giacomo.
Che Giacomo fosse in stato di lieve ebbrezza (non proprio ubriaco) lo si dedusse anche dalle analisi fatte dalla patologa forense di Cartagena, che annotò che la quantità di alcol trovato nello stomaco poteva corrispondere a due bicchieri di b. irra.
Alcune testimonianze, che riuscii a raccogliere nei pressi del ristorante e nell'alloggio dove Giacomo era stato, mi indussero a ritenere che erano stati i poliziotti a causare la morte di Turra, che dal ristorante cinese era stato portato prima in caserma e, poi, in condizioni disperate, al pronto soccorso dell'ospedale di Bocagrande.
Le prime notizie che apparvero sul giornale parlarono di un giovane italiano morto per overdose. Cominciò, così, una lunga storia, che seguii per i tre successivi anni della mia permanenza in Colombia, per cercare di denunciare alla magistratura locale le incongruenze che emergevano dalle “superficiali” indagini svolte dalla polizia. Con il passar del tempo, non mancarono problemi nei rapporti con la polizia nazionale con cui dovevo, in relazione al mio incarico, collaborare. Tuttavia, con l'aiuto di due giornaliste (Julia Navarrete dell'Espectador e Carolina Sanchez di una emittente televisiva di Bogotà) e di due bravi e onesti funzionari della Fiscalia Generale della Nazione, si riuscì a portare la vicenda all'attenzione dell'opinione pubblica colombiana e italiana e dei massimi vertici istituzionali dei due paesi.
Tutto questo fu possibile grazie allo straordinario impegno e generosità di Sisto Turra, di sua sorella, della sua famiglia e dell'ambasciatore italiano Francesco Capece Galeota. Alcuni particolari, a distanza di venti anni, mi sfuggono e gran parte dei documenti (segnalazioni alle autorità giudiziaria e di polizia, valutazioni medico legali, corrispondenza varia con gli avvocati colombiani, con la famiglia Turra, sollecitazioni fatte alla magistratura locale ecc…) che raccolsi in quei tempi non li ho più (molti li inviai, anni fa, ad un produttore televisivo italiano per un documentario sulla vicenda e sulla Colombia).
Ebbi, peraltro, un grande appoggio dal capo della Fiscalia Generale della Nazione, Alfonso Valdivieso Sarmento, l'uomo di “manos limpias” colombiana, che riuscì a mettere sotto processo lo stesso presidente Ernesto Samper Pizano, accusato di aver intascato dollari dai narcos di Cali per la sua campagna elettorale.
I poliziotti di Cartagena furono sottoposti alla giurisdizione militare, perché si trattava di “fatti accaduti in servizio” (in passato, secondo una comunicazione che ebbi dalla Fiscalia nell'agosto 1996 e che ancora conservo, gli stessi poliziotti erano stati coinvolti in un altro episodio di violenza) e il loro “giudice” fu il colonnello comandante della polizia del dipartimento, che non ravvisò elementi per sottoporli a giudizio. Si riuscì, dopo molto tempo, e grazie ad un avvocato donna di Cartagena, a trasferire il processo alla giustizia ordinaria, che evidenziò gravi indizi di colpevolezza degli agenti che furono arrestati per omicidio preterintenzionale. Successivi ricorsi alla Corte Suprema di Giustizia determinarono la riassegnazione del processo alla giurisdizione militare e, dopo diversi anni, la vicenda si concluse, incredibilmente, con l'assoluzione dei tre poliziotti.
Sisto Turra non c'è più da alcuni anni, dopo aver aspettato una “giustizia” che non è mai arrivata.
L'auspicio è che il maldestro tentativo di depistaggio sulla morte di Giulio Regeni, attuato dai servizi di polizia egiziani, venga prontamente smantellato dal team di poliziotti e carabinieri inviati dal nostro Governo al Cairo e la verità emerga subito. Costi quel che costi anche nei rapporti con l'Egitto.
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