Quel rodaggio passatoa fare le ore piccole
Prima lavoravo in Fiera. Ed come essere al circo. Montavi uno spettacolo, vendevi spazi, scrivevi comunicati perché la gente venisse a vedere. Un'attività che regalava qualche emozione. Ma l'idea di fare il giornalista mi si era infilata dentro come un virus. Avevo avuto l'esperienza del primo pezzo pubblicato da un giornale e solo il senso del ridicolo mi aveva evitato di andare al Pedrocchi a domandare: «Avete letto l'articolo a pagina 23? L'ho scritto io. Bello, no?». Poi - era il gennaio del 1978 - mi capita l'avventura. Mi chiedono di far parte della squadra che realizzerà la grande innovazione: un giornale elettronico, una «fabbrica del presente» digitale. Si trattava di intraprendere il mestiere con un mezzo nuovo, di raccontare la città. Due mesi di rodaggio e poi si parte. Si entrava in redazione alle 10 e si usciva alle due del mattino. Rientravo a casa a notte fonda, mia moglie era immersa in un sonno di piombo, mi aspettava la gatta siamese per miagolarmi addosso tutto il suo disprezzo. Che cosa ci sostenne nella fase di decollo del giornale? La curiosità, primo talento di un giornalista, la voglia di vincere una sfida ma anche la novità del metodo. Io ero abituato alla Olivetti 81, un carroarmato da scrittura, e alle false partenze: incipit di poche righe non soddifacenti, fogli sfilati dal rullo e accartocciati, mani macchiate di nero e di rosso quando, alla fine, riuscivi a cambiare il nastro. Ora, il computer offriva nitore e silenzio, era sparito il rumore di fondo delle redazioni con il ticchettare delle tastiere e il cigolio del carrello spostato ad ogni caporiga. E poi potevi modificare l'attacco quando volevi.
Una sera la radio della polizia segnala una rissa, ma la concitazione dei messaggi lascia capire che c'è in ballo qualcosa di peggio. Partiamo in macchina con una collega. Sta nevicando. Il posto è un condominio a ferro di cavallo a ridosso della ferrovia, le case abbracciano un cortile colmo di neve e lì c'è il cadavere di una donna, una pozza di sangue sotto il corpo, una macchia di paura in mezzo al lenzuolo candido della neve. L'ha ammazzata il marito a colpi di pistola. Gli agenti hanno infilzato delle bandierine che segnalano la posizione dei bossoli. Io calpesto la scena del crimine e quello che mi viene detto dai poliziotti mi fa sentire un perseguitato e non un imbranato, come sarebbe giusto. Un esempio, questo, di una nottata sul campo. Un giorno dopo l'altro il giornale cresce, la tecnologia si perfeziona, la squadra funziona sempre meglio.
Due sentimenti: la gioia di un'inchiesta ragionata, condotta con la mente libera; la paura, paura del buco, paura di sbagliare, paura di un menabò bianco, paura di non saper rispondere alla domanda ogni giorno formulata: «Ma qual è la notizia?». Il mestiere può dare alla testa come un vino forte, ma contiene anche il correttivo del bagno di umiltà quando sbagli, perché per quanto bravo tu sia l'errore è sempre in agguato: errore di valutazione, di giudizio, errore di grammatica, di ortografia, errore di stampa. «E ti ricordi quella volta che...?». Mezzogiorno, tre pagine vuote, curavo la parte economica del giornale. Zero notizie, disperazione. «Sei giù, sei depresso - mi dice Divo Gori, caporedattore - se vieni con me, ti rimetto in sesto». Lui è pilota, andiamo all'aeroporto. Mi fa montare su un piper, decolliamo: picchiate, cabrate, discesa a vite sul palazzo della redazione. Quando vedo la mia bici parcheggiata sotto il giornale, penso: adesso ci schiantiamo. Invece mi riporta indietro e ritorno al lavoro sereno. Capisco perché facciano camminare i manager sui carboni ardenti. Il rischio fisico fortifica, dissolve il panico. Un giorno dopo l'altro abbiamo vissuto la stagione del terrorismo, siamo passati attraverso la bufera di tangentopoli e nell'uno e nell'altro caso nella nostra città i rimbalzi sono stati potenti, sono passati direttori, sono cambiate le facce dei colleghi, alcuni se ne sono andati per sempre, sono cambiati sindaci e vescovi, sono arrivare le polveri sottili e l'ecologia, abbiamo scritto delle Brigate Rosse e delle buche sui marciapiedi, delle tangenziali e degli spritz. Sono passati trent'anni e alla fine mi sono accorto quasi di colpo che era ora di andare in pensione.
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