Rettore o rettrice? La lingua ha le sue regole: non si tratta di genere, ma di grammatica

Tiziana Lippiello è la prima donna in Veneto ad assumere quel ruolo nell'Ateneo veneziano di Ca' Foscari. E quindi come si dice rettore donna o rettrice? La femminilizzazione dei nomi di ruoli e professioni è stata pacificamente realizzata nella storia dell’italiano: nell’Ottocento sono stati creati nomi, oggi consolidati, come “studentessa”, “dottoressa”, “professoressa”; nel Novecento veniva chiamata costantemente “senatrice Merlin” la parlamentare autrice della proposta di legge di abolizione delle case di tolleranza
Male and female gender symbols and network pattern
Male and female gender symbols and network pattern

I lettori sanno qual è stato l’esito delle elezioni per decidere chi succederà a Michele Bugliesi, attuale rettore dell’università Ca’ Foscari di Venezia: è risultata eletta Tiziana Lippiello, che ha battuto al ballottaggio un’altra candidata, Monica Billio. Sarà la prima professoressa a ricoprire questa carica nel Veneto.

È possibile che venga eletta una professoressa anche all’Università di Padova, l’anno prossimo, se si bada alle voci di cui ha dato conto il “Mattino di Padova” una decina di giorni fa, secondo le quali sono prevedibili candidature femminili di alto profilo; e, allargando lo sguardo all’intero Nordest, ha già avuto una rettrice l’Università di Udine, retta da Cristiana Compagno dal 2008 al 2013.

La nomina della professoressa Lippiello ha creato difficoltà linguistiche alla stampa. Il nostro giornale ha ondeggiato tra un iniziale “prima rettore donna del Veneto” e un successivo “prima rettrice del Veneto”. Gli altri giornali hanno sperimentato difficoltà e oscillazioni analoghe.

Ruoli di prestigio

La soluzione a mio avviso migliore l’ha indicata la stessa neoeletta, suggerendo “rettrice”. La ritengo la soluzione migliore non perché proviene dalla diretta interessata, ma perché rispetta alcune regole fondamentali della grammatica italiana. In italiano decliniamo per genere le parole che denominano ruoli, professioni, titoli, rapporti di parentela, se si riferiscono a persone specifiche (non diciamo “ho un cugino di nome Maria Angela”, ma “ho una cugina di nome Maria Angela”; non diciamo neppure “il maestro Francesca”, bensì “la maestra Francesca”).

Inoltre, esistono precise regole di formazione delle parole. Nel caso di “rettrice”, viene applicata la regola in base alla quale a un nome che al maschile termina in “-tore” corrisponde un femminile che termina in “-trice” (“scrittrice”, “pittrice”, “attrice”). Queste regole sono ampiamente rispettate, al punto che mi stupisco sempre che si continui a discuterne quando si tratta di ruoli di prestigio attribuiti alle donne. Tanto più che la femminilizzazione dei nomi di ruoli e professioni è stata pacificamente realizzata nella storia dell’italiano: nell’Ottocento sono stati creati nomi, oggi consolidati, come “studentessa”, “dottoressa”, “professoressa”; nel Novecento veniva chiamata costantemente “senatrice Merlin” la parlamentare autrice della proposta di legge di abolizione delle case di tolleranza (ma non nei resoconti parlamentari); ancor prima il Vocabolario degli Accademici della Crusca citava, come femminile di “architetto”, il regolare “architetta”, del quale abbiamo testimonianze fin dal Seicento.

I parlanti

Ma le reazioni ci sono, e ce ne sono state anche in occasione dell’elezione della professoressa Lippiello. Chi osserva come si muove la lingua non può non tenerne conto. Sì, le regole esistono e la lingua non si struttura per singoli fenomeni ma in base a una organizzazione sistemica (per questo la mancata attribuzione di genere a un numero ristretto di parole si presenta come una anomalia che presto o tardi la lingua, o meglio la comunità parlante, dovrà sanare in qualche modo). Ma i padroni della lingua sono i parlanti e non un qualche centro di regolazione (culturale o politico). Un uso linguistico si consolida dopo un tacito confronto tra i parlanti, anche se, in ogni caso, ogni singolo parlante è libero di usare la lingua come ritiene più consono al suo modo di sentire, assumendosi il rischio, però, di disapprovazione sociale, nel caso che le sue scelte risultino non condivise dalla società o dal gruppo di appartenenza.

Il limite della libertà

La libertà, però, appartiene al parlante, non al soggetto designato. Per quanto l’attuale Presidente del Senato preferisca essere designata al maschile, “il Presidente del Senato”, non potrà mai imporre a nessuno di rinunciare al rispetto della regola grammaticale di attribuzione di genere; così come la ex Presidente della Camera, Laura Boldrini, non poteva obbligare nessuno a chiamarla “la Presidente della Camera”.

Chi ha una carica può determinare il comportamento dell’istituzione che presiede; può adombrarsi se un interlocutore adotta una denominazione difforme da quella desiderata (facendo pesare moralmente all’interlocutore questa scelta). Ma nulla di più.

Prima o poi, però, l’uso linguistico si stabilizzerà, in un senso o nell’altro. Negli ultimi anni, la femminilizzazione si è estesa sempre più. Per quanto le previsioni sull’evoluzione della lingua siano sempre incerte e pericolose, si può immaginare che, se prosegue l’attuale tendenza, nel giro di poco tempo la femminilizzazione sarà la forma più largamente condivisa e i nostri posteri leggeranno con divertimento, ma anche con stupore, le discussioni che in questi anni contrappongono in forma spesso virulenta i fautori della femminilizzazione e quelli della mascolinizzazione.

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