Sicurezza e cyber-spazio «Recluteremo i giovani»

PADOVA. Hacker al posto dei cecchini. Missioni internazionali anziché la garitta al confine di Stato. Unità ad elevata specializzazione a Amatrice e Forze Speciali a Rigopiano, e niente più ragazzi in servizio di leva ad affollare le caserme.
«Tutto è cambiato nel giro di pochi anni e siamo tuttora dentro a una sorta di rivoluzione» sostiene il generale Claudio Graziano, Capo di Stato Maggiore della Difesa. Come dire il Comandante di tutti i militari italiani. «Una nuova minaccia - spiega Graziano - si aggiunge al tema classico della difesa terrestre, aereo-spaziale e navale. Parlo del cyber-spazio, che è la nuova frontiera cui siamo urgentemente chiamati ad operare sul versante della sicurezza. L’evoluzione tecnologica e culturale è tale che un giovane hacker può mettere in crisi degli Stati. E per questo promuoveremo una campagna di reclutamento straordinaria».
Prima di parlare del futuro incombente, iniziamo da una domanda basica, ma nient’affatto scontata. A cosa servono oggi Esercito, Marina e Aeronautica?
«Vero, non è affatto materia scontata. Veniamo da un lungo periodo di difficoltà, in cui siamo spesso stati spettatori di critiche sullo scopo e sull’utilità delle Forze Armate; una mancata comprensione da parte della comunità civile dovuta, in larga parte, al retaggio della sconfitta della Seconda guerra mondiale. Oggi, il nostro ruolo - e, direi, il prestigio - su scala nazionale e globale non sono più in discussione. Abbiamo riaffermato che serviamo essenzialmente per l’impiego legittimo della forza e delle armi a tutela della sicurezza e dell’integrità della Nazione e della comunità internazionale».
Nel concreto e per numeri, quali sono i contenuti principali della vostra missione oggi?
«Nella Prima guerra mondiale, l'Italia contava 34 milioni di abitanti e 6 milioni di militari. Le Forze Armate, a fine anni ’70, consistevano in circa 400mila persone. Tutto è cambiato da quando la difesa dei confini nazionali - peraltro sempre prevista nei compiti istituzionali - ha lasciato il campo alla partecipazione alle missioni internazionali di risposta a situazioni di crisi e alle operazioni a carattere speciale sul territorio nazionale. Siamo così scesi dai 250mila ai 190mila della legge sul professionale, stando al Libro Bianco, dovremo attestarci a circa 150mila unità per consentire anche un graduale ringiovanimento delle Forze armate».
Il cosiddetto Libro Bianco appena approvato dal Governo e voluto dal ministro alla Difesa, Roberta Pinotti, condensa una riforma importante.
«Premesso che ciascuna Forza Armata rimane padrona delle proprie tradizioni, culture e capacità specifiche, non può più esistere alcuna separatezza e duplicazione. La cabina di regia deve essere unica. La parola chiave sarà “integrazione”, ricercando efficacia, efficienza ed economicità. Il percorso di integrazione tende a risparmiare nei comandi e a investire di più sulle forze operative. Il successo operativo dipenderà da un comando unico integrato di un sistema interforze, che si avvarrà dei comandi di componente e che . per quanto attiene alle operazioni sul territorio nazionale, non potrà prescindere da una costante e leale collaborazione con le Forze di Polizia».
Non piacerà a tutti la riduzione degli alti gradi e degli automatismi di carriera.
«Non esiste alcuno Stato moderno che non abbia già intrapreso il percorso di integrazione e di efficienza cui tendiamo con il Libro Bianco. La legge sul riordino dei vertici ha preso avvio quando il ministro alla Difesa si chiamava Mattarella. E da quelle prime mosse abbiamo realizzato grandi progressi organizzativi e concettuali, nonostante un lungo periodo di risorse limitate».
Il Libro Bianco indica la costituzione di una sorta di Pentagono, alle porte di Roma a Centocelle.
«Innanzitutto sarà ed è necessario che lo sia un “vero” Pentagono italiano, anche se non è detto che la sua forma architettonica sarà quella di un pentagono. Si tratta di un progetto che richiederà molti anni per essere pienamente realizzato. Di certo, è necessario continuare a investire in sicurezza, poiché le sfide cui siamo chiamati a rispondere sono sempre più complesse e gravi. Siamo ora tornati a destinare alla Difesa l’1,18% del Pil, ma avevamo perso un quarto dei fondi negli ultimi dieci anni. Penso sarebbe opportuno scorporare dal patto di stabilità le spese di investimento militare: la NATO raccomanda una quota del 2% sul Pil, risorse che in questa stagione di terrorismo dilagante diventano in qualche modo un dovere. Purtroppo, nel passato, a causa del necessario contenimento della spesa pubblica, si è risparmiato su alcune capacità operative ed è stata ridotta la disponibilità di scorte, tutti elementi che invece sono necessari negli attuali scenari».
Disponete di tutte le risorse e le competenze per fronteggiare il terrorismo internazionale e in particolare sul fronte cyber?
«Sarebbe arrogante e presuntuoso rispondere affermativamente. L’aumento degli attacchi informatici è del 60% e noi ci stiamo attrezzando per rispondere. Ma dobbiamo investire sulle risorse umane, sposarci con atenei e giovani. Stiamo per lanciare un piano di reclutamento straordinario per impostare programmi di protezione ad hoc, iniziando un percorso che durerà negli anni. Del resto, sono circa 30mila i giovani che hanno chiesto di entrare nelle accademie, a fronte di circa 400 posti. Ovviamente, parliamo anche di ricerca di un posto di lavoro, che è comunque una nobile ragione. Ma numeri così imponenti sono indizio certo di accresciuto prestigio della professione militare».
Da cosa dipende?
«Il peso crescente dell’Italia nelle missioni all’estero e il maggiore ruolo delle Forze armate nelle attività sul territorio nazionale sono i due fattori chiave. Nel mio piccolo ho trascorso quasi cinque anni in varie missioni in Afghanistan, Libano, Mozambico e posso testimoniare che, oggi, anche un semplice caporale fa politica estera e culturalmente ci rappresenta a tutto tondo. Per esempio, anche in termini di rispetto di genere, insomma di parità dato che abbiamo militari uomini e donne che operano nelle medesime missioni svolgendo gli stessi incarichi e le stesse funzioni».
E però non sono mancate le polemiche su disfunzioni e ritardi, per esempio nei soccorsi sui luoghi di catastrofi naturali.
«Le Forze armate anche nelle attività di concorso sono in grado di intervenire rapidamente mettendo a disposizione le capacità richieste in tempi ridotti. Ricordo che dal 24 agosto scorso migliaia di militari hanno operato, senza soluzione di continuità, nei luoghi del terremoto e, poi, del maltempo in Centro Italia, a supporto della popolazione. Abbiamo una capacità operativa reale: con le nostre unità del Genio dell'Esercito o dell'Aeronautica, sia che ci troviamo ad Amatrice o a Herat in Afghanistan, i ponti dobbiamo saperli costruire».
A proposito di infrastrutture, la rivoluzione che state attraversando coinvolge anche il sistema delle caserme disseminate per l'Italia. Come procede la riorganizzazione e il piano di dismissioni?
«Da Capo di SME avevo detto che l’Esercito teoricamente avrebbe potuto restituire tutte le sue caserme e concentrarsi in 15 strutture, organizzate come le grandi basi statunitensi. Ragionamento teorico e però vero, ma che cozza con la richiesta di presidio del territorio, che ci viene dalle Istituzioni e dalle comunità locali e con le reali disponibilità economiche. Per esempio, in una terra di confine, come il Friuli Venezia Giulia, ci viene esplicitamente chiesto di non scendere al di sotto del livello attuale. Ci sono altre situazioni virtuose, come il Trentino Alto Adige, dove la Regione ha ricevuto nel suo patrimonio demaniale due caserme, in cambio della ristrutturazione radicale di un’altra, che ci è stata recentemente restituita. Ma penso anche a Venezia, dove il sindaco Luigi Brugnaro non vuole rinunciare alla presenza dei Lagunari: da tre caserme, su cui era disseminato il reggimento, ci concentreremo in una sola a Malcontenta di Mira, più funzionale alle esigenze (anche alla luce dei lavori di realizzazione del canale che immetterà in laguna), mentre il Comune godrà certamente della valorizzazione del complesso dell’isola delle Vignole, che verrà liberata dalla presenza militare proprio in virtù della citata razionalizzazione delle caserme. Il fatto che le comunità locali chiedano a gran voce che i militari restino a presidio e difesa dei territori è il sicuro indizio di un migliorato rapporto con la società civile. Dobbiamo essere capaci di raccontarci meglio».
Il vostro ruolo nella storia nazionale, in particolare nei riguardi delle giovani generazioni, rimane in effetti materia per appassionati.
«Vero. Lo dico da appassionato di storia. Per questo ho molto apprezzato l’idea dell’Associazione alpini di Asti, che ha pensato di rappresentare a fumetti un periodo di storia quanto mai complesso come la Prima guerra mondiale. Parlo del volume “Da Caporetto alla vittoria”, dove i fumetti, realizzati da due autori di Dylan Dog, raccontano come, in un anno cruciale per la storia italiana, in pochi giorni siamo passati dalla disfatta, alla resistenza sul Grappa e infine alla vittoria. Se fossimo più consapevoli di quel che siamo stati capaci di fare nel nostro passato nazionale, forse avremmo anche una attitudine diversa al futuro».
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