Stefano Scandaletti al cinema diventa Valpreda

Marco Tullio Giordana, dopo aver raccontato 40 anni di storia italiana ne «La meglio gioventù», affronta per la prima volta al cinema una delle pagine più buie della democrazia. «Romanzo di una strage» – da oggi nelle sale - insinua la macchina da presa in quella rete di complotti, di colpi di stato falliti, di piste anarchiche e fasciste e di servizi segreti deviati che colpirono - come scrive Eugenio Scalfari - il nostro sistema immunitario, scatenando una malattia endemica che affligge l’Italia ancora oggi. Il film comincia con la strage di piazza Fontana e i suoi 17 morti e si conclude con l’uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi (Valerio Mastandrea).
Al centro la morte dell’anarchico Pinelli (Pierfrancesco Favino) e la storia di tanti uomini che rimasero indissolubilmente legati a quell’eccidio. Come Pietro Valpreda, accusato di aver piazzato la bomba e poi assolto nel 1979. Nel film di Giordana, Valpreda è interpretato da Stefano Scandaletti, attore padovano («I piccoli maestri», «Le rose del deserto», «La giusta distanza») che, all’epoca dei fatti, non era ancora nato. Cosa sapevi di Piazza Fontana prima di oggi? «Sapevo tutto quello che non racconta il film, nel senso che «Romanzo di una strage» si basa su uno stravolgimento dell’opinione che abbiamo in generale di piazza Fontana. E’ un ramificarsi di storie che forse la maggior parte di noi non conosce e che vede il territorio veneto come protagonista». Padova è la città di Freda e Ventura.
Qui avrebbero acquistato la valigia per trasportare la bomba in piazza Fontana. «Esattamente. Padova è stata un crocevia anche se io ero troppo piccolo all’epoca per respirare il clima da strategia della tensione. Non a caso, nel film, ci sono molti attori veneti. Oltre a me, c’è Dennis Fasolo, nel ruolo di Freda e Michela Cescon, la moglie di Calabresi. Come ti sei preparato per interpretare Valpreda? Sapevo chi era Valpreda ma mi ero fatto un’idea diversa da quella del regista. Giordana lo conosceva molto bene, sapeva tutto di lui, che soffriva del morbo di Chron e che era un bravissimo ballerino. Ma ha voluto anche allontanarsi dalla aspettative del pubblico ed ha lasciato a me, come agli altri attori, la libertà di aggiungere qualche caratteristica al personaggio. Giordana ama gli attori, è un meraviglioso direttore d’orchestra. «Romanzo di una strage» è uno strepitoso film corale. Tranne forse il commissario Calabresi. Perché proprio lui e non altri? Si può interpretare questa scelta come una presa di posizione da parte di Giordana?
«Non la vedrei in questi termini. In primo luogo è indispensabile che ci sia un personaggio principale perché il pubblico si deve immedesimare. In questo senso Calabresi è il protagonista migliore: rappresenta l’Italia. All’inizio ha una tesi, ha un pregiudizio. Crede a delle cose e man mano che procede nelle indagini, vede le sue convenzioni sgretolarsi. E nel momento in cui arriva a comprendere, è finito. E’ un personaggio simbolico; l’uomo perfetto per quel processo di immedesimazione. Perché ci sono voluti più di 40 anni per realizzare un film su Piazza Fontana? Intanto perché ancora non abbiamo risolto nulla. Di solito ci permettiamo di fare un film quando abbiamo elaborato una tesi. La straordinarietà e la modernità del lavoro di Giordana sta proprio qui: raccontare che ancora una tesi non c’è. Il film è rigoroso, quasi monumentale; e non mira a intrattenere».
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