Un anno senza Covre, la forza di dissentire e il Veneto che diventa più precario e asfittico

ODERZO. No, non se n’è andato un anno fa. Quel triste giorno del 24 marzo 2020, ci ha lasciato il corpo di Bepi Covre, non la sua anima né il suo cuore: quelli, un anno dopo, vivono più che mai in noi e tra noi. E continuano a fare della sua esistenza la genuina autobiografia di un Veneto che la modernità rende sempre più precario ed asfittico.
Lui, nato e rimasto fino all’ultimo “un ragazzo del Palù”, luogo fisico e simbolico al tempo stesso tra Oderzo e Fontanelle; uno dei presìdi di quella cultura contadina che è nelle radici stesse del Veneto profondo, fondato sul quadrilatero tra Dio, terra, famiglia e lavoro.
Lui, figlio ed erede di una storia condivisa da generazioni di povera gente con la voglia di riscattarsi dalla miseria atavica spendendosi in prima persona: nonni costretti come tanti ad emigrare “in Merica”, capaci di riscatto, tornati a casa per crescere la classica famiglia patriarcale, una ventina di persone tenute assieme sotto lo stesso tetto dalla dedizione alla fatica, dall’attaccamento alle tradizioni, dalla colonna sonora del filò condiviso la sera nella stalla, tra schiene rotte e voglia di futuro.
Un combattente nato, Bepi Covre, capace di tradurre in fatti il motto di tanti veneti: “Se i ghé riesse i altri, ò da farghea anca mi”. Ci è riuscito: studente in una famiglia dove vivere e morire nei campi era il pensiero unico; rappresentante di commercio dopo gli studi per guadagnarsi da vivere e fare esperienza del mondo; imprenditore a 36 anni e di successo; politico a 40, per caso ma vincente.
Sindaco amatissimo, parlamentare stimato ma free-lance del seggio, al punto da rifiutare la ricandidatura, “perché chi ricambia deve farsi ricambiare”. Personaggio pubblico di spessore, con una passione per l’impegno civico a favore della comunità: una passione atipica per il mondo contadino di cui era figlio, maturata fin da ragazzino ascoltando e assorbendo il giornale radio delle 8 di mattina, e coltivata da studente con la lettura quotidiana del “Corriere” di Montanelli. Tutto, amministrare la cosa pubblica come l’azienda, ispirandosi a quell’antica religione laica del fare che è il lavoro per i veneti.
È nato, lo ricordava egli stesso, a cavallo di tempi nuovi: in quello scorcio del secondo dopoguerra in cui un terremoto sconvolgeva l’Italia e gli italiani, trasformando un Paese agricolo e legato alla tradizione, in uno stravolto dalla pandemia del consumismo e orfano di valori che Pasolini avrebbe poi denunciato nei suoi memorabili “Scritti corsari”.
Ma lui non è stato tra i terremotati: ha mantenuto saldo fino all’ultimo il suo riferimento ideale al cattolicesimo che si fa stile di vita, al principio di una solidarietà che punta a creare un benessere plurale non individuale, a una parsimonia che si estende dal pensare al fare. Fino all’ultimo, ha coltivato in silenzio un generoso impegno nel sociale che ha seminato tanto bene lì dove si manifestava il bisogno, dal terzo mondo al cortile di casa.
È approdato alla politica in un momento storico di tracollo di una partitocrazia divenuta asfittica, quasi senza volerlo ma come sentendone la necessità di testimonianza civica. Le sue bandiere sono state la cultura del fare, la sintonia con i cittadini, il federalismo vissuto non come privilegio ma come responsabilità.
Ha incrociato questo suo percorso con l’irrompere sulla scena di una Lega che, ricordava egli stesso, “è nata come espressione popolare della voglia di buon governo”. Ma non ha mai portato la testa all’ammasso, neppure in una realtà dove “il Capo” faceva e disfava, anche agendo da Robespierre spietato tagliatore di teste con chi dissentiva. Solo Covre ha saputo farlo senza ghigliottine, al punto da guadagnarsi l’etichetta di “eretico”, senza che mai Bossi l’abbia cacciato; anzi, “ce ne vorrebbero di leghisti come te”, gli confessò un giorno. Ed era una sorta di laurea ad honorem, di cui si faceva giustamente un vanto.
È arrivato il giorno in cui ha dovuto rinunciarvi, e anche se non ne ha mai parlato con nessuno è stato il più amaro della sua vita. Era troppo, per la piccola nomenklatura del dopo-Bossi, il suo libero pensiero: dalla sera alla mattina l’hanno espulso da quella Lega di cui era stato un architrave e che tanto aveva amato.
Era un personaggio troppo scomodo e ingombrante, per un leghismo inquinato dalla sindrome di Salieri, quella che è vittima della mediocrità. Bepi ha continuato a restare un uomo libero fino all’ultimo, a cui nessuno è mai riuscito a mettere il basto. Per questo oggi, un anno dopo, lo sentiamo ancora parte delle nostre vite: l’uomo è dov’è il suo cuore non il suo corpo, dice il Mahatma Gandhi. Lui, sappiamo dov’è. —
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