United Colors of Benetton ha accumulato 756 milioni di perdite dal 2012

TREVISO. Avremmo mai associato i colori sgargianti di Benetton ai toni plumbei di una débacle? Forse mai prima del virus, che sta contagiando e talora ammazzando imprese anche importanti. Ma i maglioni di United colors of Benetton si stanno stingendo da tanto tempo: quasi un decennio.
E dal 2012 – ultima annata chiusa in utile per l’azienda tessile-abbigliamento da cui ha originato l’impero dei quattro fratelli trevigiani – Ucb ha accumulato perdite per 756 milioni di euro. In pari tempo, il fatturato consolidato è precipitato da oltre 2 miliardi a 1 miliardo e 236 milioni.
Non serve alcun profeta (di sventura) per stimare la discesa sotto al miliardo quest’anno, funestato dalla catastrofe Covid. Che di catastrofe si tratti, ne abbiamo messe di indizi: il sistema moda toscano, per esempio, stima un crollo del 30-40% del fatturato quest’anno, il colosso del lusso francese Lvmh del 15% sul primo trimestre e assai peggio a seguire, Geox del 20% nel primo trimestre.
Torniamo a Benetton e al suo trend. Una voragine, un gorgo in grado di far affondare quasi chiunque. Ma non la famiglia trevigiana, che di anno in anno ha ripianato le perdite attingendo alle riserve e immettendo nuovo capitale. Ma non Luciano e Giuliana, che fino allo scorso anno hanno condiviso in incredibile armonia la strada con Gilberto e Carlo.
Dopo la morte degli ultimi due, restano appunto Luciano e Giuliana, alle prese con un rebus che appare sempre più insolubile. Che effetti, infatti, potrà avere il virus sulla salute assai malandata del gruppo? Domanda che chiama in causa il destino d’un pezzo del patrimonio italiano, un bene sociale oltre che l’espressione di un azionista.
Il ritorno di Luciano
Il fondatore Luciano, 85 anni, alla fine del 2017 ha annunciato il suo ritorno alla testa del gruppo di cui è stato il timoniere lungo i primi quattro decenni. Un tempo dorato, in cui il nome e il marchio vivevano di una formidabile reputazione mondiale. Anni in cui il capo di Zara, Amancio Ortega, suo quasi coetaneo, gli proponeva di incrociare le loro aziende o in cui Donald Fisher, creatore della californiana Gap lo riceveva con tutti gli onori e gli proponeva di fare affari insieme.
All’epoca, eravamo allo scavallamento del millennio, il gruppo di Ortega generava ricavi per un paio di miliardi, alla pari di Benetton Group. Un decennio dopo, lo spagnolo con il gruppo Inditex ha moltiplicato per dieci le vendite nei suoi negozi e il concorrente italiano le ha pressoché dimezzate.
Al suo rientro in azienda, Luciano ha sparato a alzo zero sul management che l’ha portata sul ciglio del burrone. Manovra quasi disperata, di sicuro sollecitata da Gilberto, che all’epoca presiedeva la cassaforte di famiglia Edizione e che non faceva mistero della sua estrema preoccupazione per il pendio scosceso su cui procedeva Benetton Group.
Luciano con gran coraggio ha accettato la sfida e da oltre due anni ha lasciato da un canto le passioni cui si era dedicato ai tempi dell’uscita dai ranghi operativi. Bando alla barca e soprattutto alla sua passione per l’arte contemporanea.
L’impegno quotidiano
Non è passato giorno senza che sia stato alla sua scrivania a Villa Minelli, per ridisegnare le collezioni, per ritessere il filo della rete di negozi in franchising (ossia in partnership con chi li conduce), per ristrutturare il management, per ridefinire le strategie produttive e distributive. Un lavoro largamente in solitaria, forse addirittura in solitudine rispetto al resto della famiglia. Del resto, le vicende di Atlantia e Autostrade per l’Italia, con il tracollo dei valori azionari e un contenzioso senza fine con il governo Conte, hanno portato i vertici di Edizione a concentrarsi esclusivamente su quei vitali dossier.
Con il crollo del ponte Morandi, per i Benetton dalla metà di agosto del 2018 si è aperta una crisi sistemica. Anche interna. Gilberto diceva che con i fratelli bastava un cenno per capirsi. L’armonia appare perduta nel reticolo dei 14 figli dei fondatori. Torniamo ai maglioni colorati. Luciano sostiene che gli esiti del suo lavoro di rifondazione iniziavano a manifestarsi. Parola complessa, che significa letteralmente prendere per mano. Ma il virus non consente di tenere saldo il bandolo della matassa ad alcuno. E il gruppo segnala che si propone di ritrovare il punto di pareggio con il bilancio del 2022. Un nuovo traguardo.
L’obiettivo 2022
Ma in mezzo ci sta un deserto, da attraversare. Lo dicono per esempio i numeri di Inditex, che a fine maggio dichiarava una contrazione delle vendite da inizio anno del 51% causata da lockdown e gelata dei consumi. Entro il 2022, Ortega punta a generare online il 25% delle vendite totali e chiuderà 1.200 negozi marchiati Zara.
Che farà il suo coetaneo Luciano dinanzi al cambio del modello dei consumi e della distribuzione? Per ora filtra solo che in questo primo scorso del maledetto 2020 le vendite online sono aumentate dell’80% abbondante. Ma che farà dei suoi 4.700 negozi, di cui 1.200 gestiti direttamente e gli altri condotti da partner?
Non si tratta di questioni di poco conto, basti osservare che i 1.200 negozi di proprietà Benetton generano la metà esatta del fatturato totale. Non di rado i negozi a gestione diretta hanno un padrone di nome Edizione Properties, che pratica affitti agevolati. Ma non basta a motivare la conferma in toto della rete. E non è tema da poco nemmeno osservare quali sono i mercati in cui il marchio incontra il gusto dei consumatori.
Il peso dell’italia
Prendiamo l’Italia e vediamo cosa è accaduto nell’arco di un decennio: valeva 921 milioni di ricavi nel 2009, che diventano 620 nel 2014 e vanno sotto ai 400 nel 2019. L’Italia esprimeva un decennio fa il 55% del totale, oggi a malapena un terzo.
Potrebbe essere un bene, la perdita di peso specifico dell’Italia, dove oggi Ucb vale meno del 3% del mercato. Ma è forse avvenuta per la contemporanea crescita di Paesi nuovi e magari in sviluppo? Il 41% dei ricavi arriva a Villa Minelli dall’Europa, i mercati principali sono Portogallo, Grecia, Spagna e distanziati seguono poi Francia e Germania. Il resto del mondo conta per un quarto degli incassi.
La ricerca di un partner
Vero che la grande stampa internazionale aveva dato risalto alle nuove collezioni Ucb presentate nelle tre sfilate allestite nell’ultimo biennio. Dice Luciano che il riposizionamento del prodotto da lui voluto e l’appeal internazionale del brand restano i due punti di leva. E che su questi lavorerà per cercare da qui al 2022 un partner di scala mondiale, in primis ben introdotto nel Far East e dunque capace di aggredire la Cina e di sviluppare le vendite in India (dove Benetton è apprezzato da un paio di decenni). Vale a dire che Ucb non avrà parte nel potente giro di acquisizioni cui sta andando incontro a passo celere il mercato italiano. No fusioni tra italiani.
La ricerca del partner è stato il chiodo fisso di Gilberto Benetton, che nel sovraintendere ai destini di tutte le controllate vedeva l’urgenza di accasare l’azienda nata con il nome di famiglia. Naturalmente vero che cercare oggi un acquirente per Ucb equivale a svenderla. Ma non meno vero che il virus ha accelerato i processi di concentrazione e che espone un mare di aziende al rischio di non sopravvivere. Il tempo non è una variabile secondaria. Non lo è per un uomo che non si sta risparmiando per salvare la sua “creatura” e però sconta l’anagrafe. Non lo è per l’azienda, che dà lavoro a oltre 7mila persone.
Il rischio che Luciano Benetton ha deciso di correre e che il virus ha esaltato, fa venire alla mente una scena del film “Il pranzo di Babette”. Nella pellicola danese, premio Oscar 1987, il generale Lowen con tutta la solennità dell’alta uniforme che indossa dinanzi allo specchio si chiede: «Può il risultato di tanti lunghi anni di vittorie risolversi in una sconfitta?».
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova