«Va pian e fa presto» Il lessico famigliare del veneto Pittis
L’ex campione Benetton lancia su Facebook un’antologia di frasi tipiche del dialetto. Dove tutti possono riconoscersi

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TREVISO. Lui è nato a Milano, ha giocato a basket a Milano e in nazionale. Poi è tornato... quasi a casa, a Treviso, dove ha vinto molto con la Benetton. Quindi si è messo a fare il commentatore tecnico per Raisport. Ma in questi giorni è diventato famoso per un post su Facebook nel quale mette insieme una marea di frasi tipiche, o modi di dire, o esclamazioni o rimproveri veneti, con una particolare” mollezza” veneziana – di terra – di linguaggio. Riccardo Pittis, ex capitano azzurro della pallacanestro, manager e life coach, non si fa ridere dietro per errori contenuti nelle 164 frasi, tutte in dialetto e tutte da leggere, postate su Fb. Son tutte figlie di cognizione di causa. A Milano, infatti, lui c’è nato e vissuto quasi per caso, figlio di un papà di San Giorgio di Livenza e di una mamma di Ca’Cottoni, a Caorle: le estati le ha passate tutte nel Veneto, dai nonni.
«Deponevo il milanese nell’armadio a fine anno scolastico e tornavo alle origini del dialetto dei miei. Buona parte di queste frasi vengono da quel periodo e da quelle estati», confessa oggi. E allora via alla rumba. Non è difficile partire con un casto “fa l’ometto”, ma si va subito sul duro con la protesta genitoriale: “questo no xè n’albergo “(ma, attenzione, c’era in agguato anche il lato B «Mai i to amighi noi i ga na casa? ” . Ci si sono sbizzarriti anche i comici di casa nostra sulle frasi contraddittorie del nostro lessico. Immancabile infatti “va pian e fa presto”. Dovevi sentirti in grave colpa davanti a un “co tutti i schei che gavemo speso par farte studiar “? No. Ci creava piuttosto una tempesta emozionale il “xe parfin pecà voerte ben “e non ci turbavano altrettanto le minacce violente tipo
«
ara che verxo el cassetto dei s-ciafoni», condite da comici «come che te gò fato, te desfo» e «xè meio che ti scampi co tute e to gambe». Quante potevamo averne, mamma? Fanno parte delle massime di igiene alimentare i «mastega ben» o «àvite e man», o le raccomandazioni morali («ti gà proprio da ciapar esempio dai pì stupidi? » ) che si chiudevano con dileggi killer dell’amor proprio («ti xè inutie come el paltan»). I genitori arrivavano fino a proclami definitivi: «Va via prima che te copa» e «se no ti fossi me fio, te gavaria già copà». Potevano causare crisi d’identità domande del tipo: «ma i te ga batexà co l’acua dei folpi? » e covava crisi matematica la minaccia «Te ne dago a do a do finché e deventa dispari». Dovevamo ripassare anche la fisica di fronte a un «Te tiro na s-ciafa che el muro te ne dà n’altra», mentre si entrava nell’anatomia quando ci annunciavano: «Te dago un peadon che te cressi de 10 schei», ove s-chei sta per centimetri, come insegnano i
murèri
. Come disgiungere la mancanza di appetito dalle prediche domenicali dei missionari in visita alla parrocchia? I genitori riassumevano così: «Svelto.... . magna, che ghe se tosatei in Africa che more de fame». L’obbligo a cibarci faceva venir voglia di portare personalmente quel fetido
polastro
– diposti ad andarci a piedi – ai “moreti lamentosi e rompibae”. C’erano anche momenti di filosofia pura quando papà e mamma ci bollavano con un «Ti ga un dio par conto tuo» che ci lasciava basiti e.... importanti. Mentre c’era grande creatività nel papà che minacciava: «te ne dago tante che dopo no i te riconosse più e i te aresta par vagabondagio». Mamma calcava la mano con un «vien qua che go el fero da stiro pronto» che preannunciava il lancio del piccolo elettrodomestico. La mamma è sempre la mamma. E per fortuna ce n’è una sola.
Sempre la genitrice sfiorava la comica con il suo: «Ara che se te caschi dall’albaro e ti te rompi tutte do e gambe. . . dopo no sta corrar da mi pianzendo». Correre con cosa, mami?
C’erano virili confronti con i capifamiglia che ribadivano: «mi aea to età saltavo i fossi per ongo» o un «desfea na montagna» che suonava assai meno verosimile. Se nei giorni meno caldi fioccavano i classici «quèrzete ea pansa». Faceva più effetto il semplificatorio «te ciapi a morte», malattia semplice ma definitiva. C’erano anche i rimbrotti per fratelli («varda i gransi corona, uno semo e staltro mona»). C’era una minor dovizia di particolari quando nel mirino era la figlia («se te ciapo te fasso nova»), ma va aggiunto che la fanciulla, se capziosa, non veniva risparmiata da un «xè rivà ea contessa Sboroni» che poteva lasciar tracce nell’autostima. E quando papà diceva desolato «Bon. Go parlà co un simpio anca unquò», stava parlando di noi. In quale frase i nostri lettori si identificano di più? Ah, saperlo.
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