Vajont: non fu colpa della natura né dell'incuria, ma dell'avidità

Il primo fu Segni, qualche giorno dopo il disastro. Il secondo Saragat, in occasione della visita nel Veneto per il centenario dell’unione all’Italia, nel marzo del 1966; si fermò al cimitero di Fortogna, poi ripassò per Longarone in novembre nel corso di una visita alle zone alluvionate.
In seguito arrivò Pertini, nel 20° anniversario del disastro. Cossiga fu a Fortogna, in forma privata, nel settembre del 1985. Per il 40° della tragedia arrivò Ciampi, nel 2003.
Per il 50° venne Grasso, presidente del Senato, seconda carica dello Stato, non avendo potuto partecipare Napolitano, e in quell’occasione presentò le scuse dello Stato per aver contribuito a provocare il disastro. Mattarella, impossibilitato a partecipare l’anno scorso, in occasione del 55°, arriva ora.
LA SOLA ASSENZA
L’unico presidente della Repubblica a non farsi mai vivo fu Giovanni Leone, ma non sarebbe stato accolto bene. Nei giorni della tragedia era stato a Longarone come presidente del Consiglio, aveva pianto e aveva promesso: «Giustizia sarà fatta». Poi però i superstiti se lo ritrovarono nemico, a capo del collegio di difesa dell’Enel (che sosteneva le stesse tesi della Sade) nel processo dell’Aquila.
Nei giorni scorsi Mattarella è stato chiaro: «Non c’è sviluppo economico senza la cura del territorio. In Italia molte calamità naturali sono aggravate da questo». Gli esempi non mancano, ed anzi si aggravano, con una forza moltiplicata dal cambiamento climatico.
Alluvioni e tempeste di vento sono sempre più frequenti e violente, come quella che di recente ha abbattuto milioni di alberi.
Il Vajont non fu, tuttavia, una catastrofe naturale. Non fu semplicemente provocata da una generica «incuria dell’uomo».
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FU PREVEDIBILE
Non fu un evento imprevisto e imprevedibile. Non fu provocato da una «natura crudele» come scrisse Giorgio Bocca nei giorni del lutto e della collera («Non ci sono rimorsi, non ci sono colpevoli. Ci siamo solo noi, i moscerini, che vogliamo dichiarare guerra alla natura»).
Nemmeno fu «un sasso caduto in un bicchiere», e l’acqua tracimò: «Tutto qui», scrisse Dino Buzzati. Tutto qui? «Seppelliamoli, non c’è altro da fare», scrissero altri in quei giorni. Davvero restava – resta - solo quello?
Non fu “colpa dell’uomo”, di un uomo generico, e perciò inesistente, e perciò incolpevole. Fu colpa di uomini concreti, che sbagliarono i conti e sottovalutarono il pericolo. Fu colpa di una società per azioni, diretta da uomini concreti.
LA SADE
Fu colpa di concreti uomini di organismi dello Stato, che dovevano controllare e non lo fecero, in piena sudditanza alla Sade. Di geologi che si facevano scrivere le perizie da uomini della Sade. Di membri della commissione di collaudo pagati dalla Sade come consulenti in altri impianti idroelettrici.
LA SCIENZA
Giorgio Dal Piaz, geologo storico della Sade, era al tempo stesso capo della sezione geologica del Magistrato alle Acque e in questa veste redigeva perizie che sollevavano la Sade da ogni responsabilità (in merito alla vicenda di Vallesella di Cadore, dove dopo la costruzione della diga si aprivano voragini e le case si lesionavano).
Augusto Ghetti, luminare di idraulica che aveva condotto le prove su modello a Nove di Vittorio Veneto, accettò di farle in tutta segretezza, tarate sui dati forniti dalla Sade la quale aveva tenuto ben lontani i geologi che, come Müller, conoscevano la pericolosità della situazione.
E tuttavia, a quanto risulta dall’analisi di quei risultati (si veda il libro recente di Agostino Sacchet, “Vajont, le frane e le onde”), aveva pure tratto conclusioni sbagliate.
Francesco Marzolo, anch’egli dell’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova, scriveva che occorreva evitare che trapelassero «eventuali notizie su tali esperimenti in ambienti esterni, tecnici o politici», per evitare «interpretazioni e montature politiche e demagogiche», e poiché era impossibile che nessuno vedesse occorreva ostentarli «ma con aspetto sincero di indagine, ai fini di interesse pubblico». Cioè occorreva mascherarli.
I LAVORI
E invano si cercherà nei verbali del Consiglio di amministrazione della Sade qualche riferimento al Vajont men che tranquillizzante.
Da quei verbali risultano rarissimi riferimenti al Vajont, ma solo per dire che «i lavori procedono regolarmente» oppure, dopo la prima frana del novembre 1960, per informare i consiglieri di amministrazione (presente anche Carlo Semenza, direttore centrale del Servizio Costruzioni Idrauliche della Sade) che era caduta «una frana di modeste proporzioni» provocata dalla pioggia, la quale aveva «innescato altri movimenti che potrebbero dar luogo a frane di proporzioni più rilevanti», ma che tutto era sotto controllo.
Eppure Semenza, come risulterà in seguito, in quel periodo era addirittura angosciato. Non risulta dunque che nemmeno il Consiglio di amministrazione fosse stato informato della reale situazione, anche se è pur sempre possibile che il verbale sia infedele. Può anche darsi che non sia stato trascritto, in un documento destinato a diventare pubblico, il vero contenuto di quelle comunicazioni.
LA SEGRETEZZA
nOn è dunque in dubbio la segretezza che avvolgeva l’impresa del Vajont, semmai il livello di quella segretezza.
Così si arrivò, alla fine, a superare quella quota 700 indicata da Ghetti come «di assoluta sicurezza nei riguardi anche del più catastrofico prevedibile evento di frana». Eppure nell’ultima corsa all’invaso fu autorizzata quota 715; si arrivò a 710 per poi scendere precipitosamente cercando di raggiungere quota 700, quando ormai i segnali si moltiplicavano. Si arrivò a 700,40.
Perché quella corsa, ultimo anello di una catena fatale? Tutti i beni della società, ormai nazionalizzata, erano stati trasferiti all’Enel, ma entro 180 giorni (a partire dal marzo 1963) l’Enel avrebbe dovuto restituire alla Sade quelli “non elettrici”.
L'ENEL
Senza collaudo l’impianto del Vajont poteva essere ritenuto un “bene elettrico”? Ciò avrebbe comportato, quantomeno, serie complicazioni in ordine ai contributi dello Stato (quelli già incamerati e quelli non ancora ricevuti); avrebbe reso manifesto che la Sade, occultando per anni la situazione, aveva artatamente influito sul valore delle azioni e dunque sul futuro indennizzo della nazionalizzazione; avrebbe inoltre aperto uno squarcio sui precedenti aumenti delle tariffe, autorizzati dallo Stato in cambio della costruzione di nuovi impianti, vitali in quegli anni di boom economico (il Vajont era il più grande, nel programma dell’Anidel).
La Sade era «uno Stato nello Stato», aveva detto Alessandro Da Borso, presidente della Provincia di Belluno (Dc). «La Sade è lo Stato», corresse l’avvocato Sandro Canestrini, morto qualche giorno fa a 97 anni, nella sua arringa al processo dell’Aquila.
Dunque non fu disastro naturale, non fu incuria, non fu imprevisto, non fu natura crudele. Se c’è qualcosa in comune, tra il disastro del Vajont e un’alluvione o una tempesta di vento, è forse la prevedibilità: ma immediata, personale e sistemica quella del Vajont; più mediata, più lontana, globale, meno percettibile nei nessi di causa-effetto in altri casi. Le società per azioni possono uccidere, le società umane - per citare un libro di Jared Diamond - possono collassare, cioè scegliere se morire o vivere.
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