Cori, preghiere e il Biancoscudo: don Alessandro, ultrà speciale

PADOVA. Tra i diciotto membri del comitato per il rilancio del calcio a Padova, c’è un professionista che spicca rispetto al gruppo. Il suo mondo non sono numeri, leggi o mercato, ma fede, aule e altari. Lui è don Alessandro Piran, 33 anni, sacerdote dal 2006, da cinque anni educatore al seminario minore di Rubano. Don Alessandro, però, nasconde (mica tanto a giudicare dal numero di maglie e sciarpe che possiede) un’altra fede, ben più profana. Quella per il Padova, che l’ha portato a impegnarsi in prima persona nel comitato. «La prima partita vista è stato un Padova-Bari all’Appiani nel 1988», spiega il sacerdote, che insegna anche religione al Barbarigo. «Prima andavo nei distinti, poi in Curva Nord. Quindi il trasferimento all’Euganeo, presente anche gli anni della C/2, fino ai giorni nostri sempre in Tribuna Fattori».
Le piace vivere il tifo in maniera attiva?
«Sì, gli ultras qualche anno fa fecero una maglietta con scritto: "senza di noi non c’è spettacolo". Ed è così. Il calcio è passione, io mi diverto e canto i cori».
Tutti?
«Quelli volgari no, anche se una volta ho registrato la canzoncina "el prete de Legnaro" (originariamente era di Legnago, ma la conszine è stata padovanizzata, ndr) e l’ho mandata a un mio amico, parroco a Legnaro».
Il mondo ultras in generale è pervaso da razzismo e violenza. Non serve citare gli ultimi casi (De Santis). Lei come si trova in questo mondo?
«Il problema esiste ed è inutile nasconderlo, anche se a Padova il razzismo è lontano dalla curva. Ci sono poi persone che allo stadio si trasformano, vivono il momento con una concitazione che li porta a fare qualcosa che normalmente non farebbero. D’accordo la prevenzione, con il governo che fa bene a punire i delinquenti. Ma non bisogna far scappare la gente dallo stadio. C’è bisogno di educare ai valori dello sport. E questa la si fa da dentro le curve».
Cosa l’ha spinta ad entrare nel comitato per aiutare i Biancoscudati?
«L’amico Aldo Tomat mi ha proposto di aiutarlo a sviluppare il progetto dell’azionariato popolare e per me è stato ritrovarmi a costruire qualcosa che ho sempre sognato. Anche se la mia prima risposta è stata: “ti rendi conto in cosa ti stai ficcando?”. Credo, però, che l’azionariato popolare sia la risposta migliore per proporre un calcio diverso, in cui il tifoso si renda parte attiva ».
In Italia, però, stenta ad ingranare. A Padova può funzionare?
«Ci stiamo lavorando, cercando di convogliare tutte le idee in un progetto solido. Io non sono un professionista, ma posso offrire passione e iniziativa. Il comitato è nato per questo, se riusciamo a compattare tutta la tifoseria ce la faremo».
Con che obiettivo?
«Assicurare una base di padovanità alla società, anche nel futuro. Il problema non si pone ora, che ci sono Bergamin e Bonetto, ma in un futuro quando i due passeranno la mano. Per evitare che possano arrivare nuovi Viganò e Penocchio. Contemporaneamente si può lavorare per cambiare l’immagine del calcio. I calciatori sono dei modelli per i ragazzi, ma non possono essere visti come personaggi ricchi, potenti e alla moda. Bisogna far emergere lo spirito di sacrificio e il sudore che ci vogliono per raggiungere un obiettivo. Questo può aiutare le nuove generazioni».
Il suo Vescovo dice che è immorale che certi giocatori guadagnino tanto.
«Sono d’accordo. Giusto essere ricompensati per quel che si fa, ma chi è più fortunato ha il dovere morale di restituire qualcosa».
Com’è il suo Padova ideale?
«Con uno zoccolo duro di giocatori cresciuti nel vivaio. E sopratutto con un seguito che riesca a coinvolgere città e la provincia. Abbiamo un grande potenziale, ma il senso di padovanità è sopito nella nostra gente. Occorre farlo riemergere».
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