Gigi Agnolin, il “duro di Bassano” di cui il calcio si fidava

STEFANO TAMBURINI
Quando le giacchette degli arbitri erano ancora nere e, soprattutto, erano ancora giacchette il calcio non aveva ancora i colori della modernità. Ma gli arbitri erano già al centro della scena: criticati, odiati e talvolta sospettati, il più delle volte a torto. Luigi Agnolin, scomparso a 75 anni, ha avuto tanti meriti: più di ogni altro, virare in positivo l’immagine di un ruolo delicato, restando nella memoria di chi lo ha visto e anche di chi non c’era.
Con lui, gli altri che emergono dai ricordi sono Concetto Lo Bello e Paolo Casarin. Il primo, decisionista ossessionato, ha influenzato in modo indelebile anche le generazioni attuali, specie degli anti-tecnologia. Casarin e Agnolin, invece, hanno attraversato l’epoca più complicata, a parte quella successiva di Calciopoli con la classe arbitrale legata ai belzebù che hanno avvelenato l’italico pallone. Quelli come Agnolin e Casarin hanno sempre rappresentato una speranza. Capitava di non condividerne le decisioni ma era piacevole quella sensazione di potersi fidare, perché erano i primi a sfidare quel ruolo quasi caricaturale del duce in campo. Sapevi che la partita era in buone mani.
Agnolin, veneto di Bassano e grande appassionato di ciclismo, quattro anni fa rilasciò al collega Paolo Baron una bella intervista sul mondo del calcio, vissuto anche da dirigente di Perugia, Venezia, Verona e Roma, per esprimere fra gli altri tre concetti: a) il calcio vive nell’incuria («si parla troppo di calciatori e poco di strutture»); b) «la tecnologia aiuta a non sbagliare» (lo hanno dipinto come anti-Var e non era proprio così); c) il calcio non sa valorizzare gli ex calciatori («negli altri paesi quelli di spessore sono a capo di enti o organizzazioni, da noi no»). Era iniziata da poco la sciagurata era Tavecchio, la sua era una critica con elegante distacco.
Nelle 226 partite in Serie A nell’epoca di Maradona, Zico, Falcao e Platini e nella lunga attività internazionale non le ha mai mandate a dire. In un derby del 1980 finito 2-1 per il Torino, ai giocatori della Juventus che protestavano in modo fin troppo energico disse «vi faccio un culo così!» (anzi, in dialetto: «mi te fasso un cesto cussì!»). Finì con Bettega e Furino squalificati per due giornate, Furino e Tardelli per una. Lui però fu fermato per quattro mesi e fu niente rispetto a quella volta che non mancò di criticare - dimostrando di averla vista lunga - Sepp Blatter, allora “solo” segretario della Fifa. Era al Mondiale nel 1990, durò solo una partita. Diresse anche un altro Mondiale, una finale di Coppa campioni nel 1988 e molte altre sfide internazionali. Seppe resistere anche al diktat del suo capo a proposito della barba lunga e nel 2006 fu chiamato a commissariare l’Associazione arbitri travolta da Calciopoli. Un contrasto fra epoche e modi di intendere lo sport. Peccato che di quelli come lui abbiano buttato via lo stampo.
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