“Io, Ribot”: il mito del Figlio del Vento

di Annalisa Celeghin
Se solo potessero parlare. Quante volte lo abbiamo pensato, dei nostri cani, gatti, o cavalli che siano? Ribot, purosangue leggenda, stallone imbattibile, in questo libro del giornalista Nicola Melillo ("Io, Ribot - La mia vita da Figlio del Vento", Lìmina Edizioni, 15 euro) parla, eccome. E lo fa da un immaginario paradiso ippico dove, finalmente, i cavalli possono correre a perdifiato senza fantini che ne limitino la velocità o l'estro.
La sua è la storia di un campione di galoppo: nato nel 1952 in Inghilterra, fu allevato da Federico Tesio, uno dei più importanti allevatori di purosangue inglesi nella storia dell'ippica. Puledro un po' sgraziato e ribelle, fu di proprietà della blasonata scuderia Dormello Olgiata; vinse, consecutivamente, tutte i sedici gran premi cui partecipò, fra le quali due Arc de Triomphe e un'edizione della King George and Queen Elizabeth. Vinceva sempre, e lo faceva letteralmente volando, sulle sue quattro zampe, mettendo fra sé e il secondo arrivato spesso più di una lunghezza.
Tre anni di corse, tre anni di successi. Non male per un cavallo "qualunque", cui era stato dato il nome di uno semi- sconosciuto acquerellista francese. Poi il ritiro e la carriera da stallone; ancora oggi alcuni suoi eredi si fanno valere negli ippodromi di mezzo mondo.
La storia di Ribot è anche quella di un'Italia, quella dei primi anni Cinquanta, affamata di riscatto dopo la guerra, e piena di speranze per il futuro, alla ricerca di eroi da idolatrare. "W Coppi", "W Bartali", "W Ribot": queste erano le scritte che si potevano leggere sui muri di una qualsiasi città italiana. E con Coppi, Ribot aveva una bizzarra somiglianza: un torace sproporzionato, 185 centimetri di passaggio cinghia: uno dei fattori che ne determinarono il successo.
Era un'Italia che riempiva gli ippodromi, che respirava la polvere sollevata dai cavalli al galoppo, che scommetteva sui possibili vincitori, che si entusiasmava al vedere le corse sfrenate di queste bestie bellissime dai muscoli guizzanti; che lanciava i cappelli in aria al passaggio di Ribot e dei suoi illustri compagni di sgroppate, come Botticelli, Tissot, Barba Toni, Vittor Pisani. Un'Italia di cui abbiamo memoria grazie alle immagini, sfocate, dei documentari dell'Istituto Luce, i cui commenti epici ben ci trasmettono il significato reale che quegli appuntamenti sportivi dovevano avere: Enrico Camici, il fantino dell'impareggiabile Ribot, era un eroe a tutti gli effetti e come tale veniva portato in trionfo e celebrato.
Fa strano, di questi tempi, immaginarsi tutto questo seguito e clamore per uno sport ora quasi del tutto abbandonato. Non ci sarebbero risorse, ai nostri giorni, nella nostra città in particolare, per un campione come Ribot. E allora non ci resta che ricordare e sognare, con questo libro di Melillo.
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