«Amava la cultura e sapeva dire di no»

«Aveva una dote per la pastorale, una propensione naturale all’incontro con l’altro. Però la sua grandezza non era solo questa. Sapeva riconoscere l’importanza delle attività culturali ed era sempre pronto a sostenerle, con quei suoi modi semplici e un po’ bruschi». Padre Luciano Bertazzo, docente di Storia della chiesa alla Facoltà teologica del Triveneto e direttore dell’Istituto Teologico di Sant’Antonio Dottore, ha conosciuto padre Enzo Poiana in tutte le tappe del suo cammino. «Lo ricordo da ragazzo, era stato anche mio studente. E poi negli anni a Roma, quando era vice parroco, e poi ancora da novizio. Infine l’ho ritrovato da rettore e per tanti anni abbiamo lavorato insieme perché da direttore del Centro studi Antoniani dovevo confrontarmi con lui. C’era una relazione fraterna. Ora che non c’è più siamo frastornati, increduli. La vita è davvero un battito d’ali».
Enzo Poiana da ragazzo come era?
«Indeciso, direi. Sorrido perché ricordo di quegli anni il fatto che era entrato in seminario e poi ne era anche uscito. Lavorava con il padre, nell’azienda agricola, in quel periodo. E il vescovo, padre Antonio Vitale Bommarco, era andato in visita al suo paese ed era andato a cercarlo in stalla. Lì aveva detto al padre di Enzo: tuo figlio deve tornare in seminario. E il ragazzo si era lasciato convincere. Poi nel 1991 era stato proprio Bommarco a ordinarlo sacerdote».
E poi vi siete ritrovati al Santo.
«Io dirigo il Centro studi Antoniani dal 1985, lui è arrivato nel 2005. È stato subito facile lavorare con lui. Quando c’era da sostenere un’attività culturale era sempre pronto. Anzi, a volte era lui che premeva, come di recente perché voleva che pubblicassimo un volume sulla storia della basilica».
Tutti ricordano la sua grande umanità. E lei?
«Era una qualità che aveva, certo. Ma era anche genuino, schietto, brusco talvolta. Mai cerimonioso, mai complimentoso. Però è vero, la sua dote principale era la capacità di entrare in contatto con gli altri, senza diplomazie inutili, senza secondi fini. Ed era uno che se c’era da dire di no, sicuramente lo diceva. Questo suo modo di fare si abbinava a una grande passione e ormai anche a una grande esperienza nella conduzione del santuario. Lui sapeva riconoscere l’umanità e le sue fatiche, sapeva come farsi presente con i pellegrini, senza rumore, cercando solo l’incontro».
Forse è per questo che immaginava di tornare a fare il parroco.
«Certo, a lui bisognava affidare quel tipo di attività, sicuramente non era portato per affari burocratici».
C’è un ricordo personale che le è venuto in mente in questi giorni?
«Ho pensato a quanti funerali ha partecipato lui, a tutte le volte che abbiamo dovuto salutare un frate anziano e mi commuovo ogni volta che penso che stiamo salutando lui».(cric)
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