Biondi e lucenti dopo 500 anni

«Più simili ad oro che altro»: così scriveva Bembo dei capelli di Lucrezia Borgia. Che nel 1503 se ne tagliò una bella ciocca e la diede all'amico-amante, per ricordo e seduzione. Ma allora erano...

«Più simili ad oro che altro»: così scriveva Bembo dei capelli di Lucrezia Borgia. Che nel 1503 se ne tagliò una bella ciocca e la diede all'amico-amante, per ricordo e seduzione. Ma allora erano cosa viva. A dir la verità, lo sembrano anche oggi, con quel biondo puro e quel giro vezzoso. Soprattutto, l'immaginario si scatena pensando che è tutto quel che resta di Lucrezia, fascinosa donna bistrattata dalla storia, diventata personaggio malgré soi. Probabilmente chi l'ha conosciuta nella sua più vera personalità sono stati Pietro Bembo e l'ultimo marito, Alfonso duca d'Este. Ora quei capelli sono tra le testimonianze - forse la più intrigante - esposte alla mostra che si aprirà il 2 febbraio a palazzo del Monte di Pietà a Padova, “Pietro Bembo e l'invenzione del Rinascimento”. Sono una prova d'amore e speriamo che il contesto aiuti a vederli così. Pare che Bembo li tenesse «come una reliquia», e di sicuro nel tempo lo sono diventati. Ma per decenni, forse secoli, sono stati un vero e proprio feticcio. Bastava la parola, per renderli tali: e vedendoli si aggiungeva tutto il messaggio che ancora trasmettono. Sono conservati normalmente alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, e nel tempo hanno avuto ammiratori speciali.

A Milano arriva nel 1816 Lord George Byron e ne rimane fulminato: «Sono i capelli più biondi che si possano immaginare e che mai ho visti di così biondi», scrive in una lettera. E tre settimane dopo racconta, sempre per lettera, all'amico John Murray, cos'è riuscito a fare: ha corrotto il custode e dal cofanetto ne ha sfilato uno: «Lo tengo come una reliquia» (anche lui), e la leggenda vuole che lo tenesse sempre addosso. La fantasia volava, romanticismo o no, vedendo quei capelli. Succede nel 1845 a Gustave Flaubert, più tardi ai fratelli Edmond e Jules de Goncourt. Pare che il re Giorgio di Prussia abbia spedito dalla Germania a Milano due ufficiali per guardarli e farne debita relazione. Quasi un problema, per la Pinacoteca: di distrazione dai dipinti, e di sicurezza. Non si sa bene come siano arrivati lì: di sicuro sono già registrati in un inventario del 1685. Frutto probabilmente della dispersione delle cose di Bembo, che sembra tenesse quella ciocca venerata tra le pagine di un libro. Probabile quindi che fossero a Roma, dove Pietro morì nel 1547.

Alla Pinacoteca Ambrosiana erano custoditi appunto in un cofanetto, come s'è visto violabile. Così nel 1928 si decide di proteggerli in una teca, che è quella che vediamo oggi. La realizza un gioielliere e scultore milanese, Alfredo Ravasco, con una base di malachite e cristallo. Appese a due catenelle di perle, aggiunse due stemmi dei Borgia, con il toro come simbolo.

Il biondo di Lucrezia doveva essere sfolgorante. Ma di lei scrive Pietro che aveva «ciglia d'ebano». Adoperava il rimmel?

P.C.

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