Chiesa dei Servi: «Il Crocefisso è di Donatello»

di Aldo Comello
PADOVA
Quasi una bustina di Minerva, un’annotazione scarabocchiata sull’orecchia di una pagina del “testo sacro”, le Vite del Vasari, prima edizione, che il giovane studioso Marco Ruffini stava consultando nella biblioteca di Yale molto lontano dai capolavori dell’arte italiana. Il messaggio di un ignoto notista, uno scriba certamente padovano come vedremo da una serie di indizi, è come il colpo di pistola dello starter, dà il via ad un’affascinante avventura culturale in cui Ruffini e Francesco Caglioti, uno dei maggiori esperti dell’arte di Donatello, si buttano a capofitto.
Siamo nel 2006, questo il messaggio dentro la bottiglia lanciata nel mare della storia: «(Donatello) ha ancor fato il Crucifixo quale hora è in chiesa di Servi a Padoa». Ruffini e Caglioti si precipitano a Padova, effettuano un vero e proprio arrembaggio al crocifisso con una passione, un’attenzione ai particolari, con una voglia di svelare il mistero degne dell’ispettore Barnaby. Martedì sera, nella chiesa dei Servi, dove il grande crocifisso di legno si staglia un po’ in ombra nella navata a sinistra dell’altar maggiore, i due studiosi hanno presentato i risultati di un accurato lavoro di investigazione che assevera la paternità di Donatello.
Per cinquecento anni l’attribuzione al grande scultore fiorentino era stata ignorata, una singolare cancellazione della memoria certamente provocata da un evento miracoloso: nel febbraio del 1512 il Cristo dei Servi per 15 giorni trasuda sangue. Il vescovo Paolo Zabarella è ritratto ai piedi della croce con in mano un calice che si sta riempiendo di stille di sangue. La documentazione sul miracolo è ricchissima e la forza “cultuale” di questa immagine acceca quasi completamente l’attribuzione della scultura a Donatello: quasi nulla di scritto, nemmeno sulle guide del Touring. Nel 1935 lo storico Hans Kauffman sostiene che il Cristo dei Servi è una copia in legno di quello, meraviglioso e famosissimo, fuso nel bronzo sull’altare del Santo, anche se le due opere, simili per lo stile donatelliano, sono diverse come postura del capo e del corpo.
Insomma, al miracolo del sangue si contrappone il “miracolo” dell’oblio artistico. C’è un padre servita toscano, Arcangelo Giani, che nel convento di Padova aveva trascorso qualche tempo, che riferisce la convinzione dei confratelli padovani che il Cristo ligneo sia un capolavoro del Donatello, tra l’altro, 1443-1445, sarebbe coevo di quello del Santo. Emergono, secondo Ruffini e Caglioti, altre affinità convincenti: la posizione del capo inclinato in avanti, la sofferenza del volto, rievocano il Giovanni Battista donatelliano della chiesa dei Frari a Venezia. C’è un altro particolare curioso Donatello aveva “la fissa” dei peli, peli scolpiti, una dimostrazione di maestria inarrivabile: peli pubici all’inguine, peli sotto le ascelle, si ritrovano sia nel Cristo dei Servi che in quello del Santo. Ma ritorniamo al messaggio del notista sulle “Vite del Vasari”. Vasari si concentra sul Gattamelata, sul dinamismo della zampa del cavallo appoggiata su una palla di cannone. che premuta con forza dall’animale sembra quasi scivolare in piazzale. Un trucco da scenografo. Del Cristo dei Serviti, invece, nemmeno un cenno. Il notista vuol correggere con una briciola di campanilismo il toscaneggiare del Vasari e la mancanza di attenzione per l’arte in terra veneta e, in effetti, si parla in un’altra chiosa di un grande artista padovanissimo, trascurato nelle Vite, Domenico Campagnola.
A sviare ancora l’attenzione, l’attribuzione a Donatello, da parte del Rossetti, della statua dell’Addolorata. L’altare di un barocco traboccante di volute e fogliami appare di fronte a chi entra dal portone laterale sotto i portici. In realtà, secondo i due studiosi, l’Addolorata è contemporanea della Madonna Mora del Santo (1396) dello scultore Rinaldino di Francia.
Il Cristo dei Servi, in legno chiaro di pioppo, era policromo, brillante di colori che il tempo ha cancellato. Come altre sculture lignee, per maggior dignità materica, è stato trattato con una vernice color bronzo che ne attenua l’espressività. Nella chiesa che in origine aveva due navate si trovava in una posizione che ne accentuava la monumentalità, torreggiava all’altezza del tramezzo che divideva l’area laica dei fedeli da quella riservata agli officianti. «Questo capolavoro di Donatello – ha detto l’assessore alla Cultura, Andrea Colasio – arricchisce l’identità artistica della città». Si interverrà con un restauro per eliminare la vernice bronzea.
Ma davvero questa ricerca appassionata e competente di Ruffini e Caglioti, questa raccolta di indizi in parte documentali, in parte artistici, ci regala l’assoluta certezza, una certezza scientifica che il Cristo ligneo sia opera di Donatello? Da profani dobbiamo prestar fede all’innegabile competenza dei due studiosi. Certo, la completa fiducia negli esperti si è azzoppata dopo l’affaire dei neutrini (altro campo, per carità). Qui la scienza cede il passo alla storia.
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova