Chiesti 65 anni per il clan Bolognino avamposto della ’ndrangheta in Veneto

Un totale di 65 anni e 10 mesi di carcere: è il conto che il pm Paola Tonini della Dda veneziana ha presentato al clan Bolognino, avamposto ’ndranghetista in terra Veneta. Un clan affiliato alla potente cosca di Nicolino Grande Aracri con un boss indiscusso tanto da avere il grado gerarchico di santa (Michele Bolognino già condannato nel processo Aemilia), operativo in Veneto grazie al fratello Sergio Bolognino, nativo di Locri e residente a Tezze sul Brenta. Ecco le richieste: 18 anni di reclusione per Sergio Bolognino; 13 anni per il suo “picchiatore” Antonio Genesio Mangone, 8 anni per i “collaboratori” calabresi Francesco Agostino e Stefano Marzano; 5 anni e 6 mesi per l’imprenditore di Vigonza Luca De Zanetti e 5 anni e 4 mesi per il collega vigontino Emanuel Levorato; 8 anni per l’imprenditore trevigiano Antonio Gnesotto. Solo il calabrese Antonio Carvelli merita l’assoluzione secondo la pm. Per Bolognino e Mangone le accuse sono di associazione a delinquere di stampo mafioso; tutti sono chiamati a rispondere di estorsioni tentate e consumate; Bolognino è imputato pure per usura, lesioni e violenza privata.
«Le “regole” criminali al Nord sono profondamente diverse da quelle del Sud. La criminalità organizzata calabrese nel nostro territorio opera illegalmente con assoluta prevalenza nel settore economico-imprenditoriale nel quale si insinua dapprima allacciando rapporti amicali, quindi imponendosi con condotte che divengono via via sempre più minacciose e poi violente» ha ricostruito la pm in una requisitoria di 292 pagine consegnata al tribunale di Padova e anticipata in aula in sintesi, «I diversi gruppi mantengono confini territoriali allo scopo di evitare di “scendere a patti”». La pm colloca l’arrivo del clan Bolognino intorno al 2008. Un clan legato alla cosca di Nicolino Grande Aracri che autorizzò Sergio Bolognino ad essere «l’uomo... che si occupava del territorio di Vicenza... dove impiegava i soldi della consorteria per le fatturazioni false... e adescava le imprese prossime al fallimento». Ma l’area di operatività toccherà anche il Padovano e il Veneziano. Violento e spudorato il sodalizio con il “picchiatore” Mangone che, nei confronti degli imprenditori-vittime, si vantava: «Io collaboro con i carabinieri in Calabria e sono intoccabile». E non esitava a minacciare: «Ti spacco le gambe, ti spacco la testa... ti squaglio nell’acido... noi siamo quelli che tagliamo le gambe... ti scanno come un porco... ti uccido te, tuo figlio, stermino la tua famiglia». Chiara la conclusione della pm: «Evidente la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso... Le parti offese sono uomini in età adulta che svolgono attività imprenditoriali e che si sono messi a piangere ricordando i fatti accaduti».
È il 17 febbraio 2011 quando Stefano Venturin, imprenditore in difficoltà con le banche, stipula tre contratti d’affitto di rami d’azienda per rilevare le società in cui lavorava tra cui la Sae D Group spa con De Zanetti che mette in campo la sua De Zanetti Re srl. Ma niente va per il verso giusto: è in questo contesto che si sarebbe verificata la prima estorsione messa in atto da Sergio Bolognino per costringere De Zanetti alla cessione delle sue quote aziendali. Il messaggio è esplicito: «Guarda che se non vai dal notaio ti ci porto o coricato o in piedi». Racconterà De Zanetti,vittima e carnefice allo stesso tempo, incapace di liberarsi da quella schiavitù: «Avevo compreso molto bene chi era Sergio Bolognino e quale peso avevano le sue parole... si trattava di una persona che aveva alle spalle una famiglia con cui era meglio non discutere mai... temendo di subire conseguenze personali (per me o anche per i miei familiari) sono stato costretto a cedere le quote».
Ecco il sistema Bolognino: infiltrarsi, fingere una malcelata disponibilità all’insegna di pseudo-valori familiari, minacciare se non pestare e poi arraffare tutto. A garantire le operazioni “il picchiatore Mangone”.
Ha osservato la pm Tonini: «Così De Zanetti, vessato da Bolognino e Mangone, si “convince” a partecipare a una attività estorsiva ai danni dei propri creditori... Così Stefano Venturin (e la moglie Maria Giovanna Santolin già titolari di Gs Scaffalature a Galliera)... vessato da Mangone chiede “aiuto” a Sergio Bolognino e “grazie” al suo intervento non ottiene sconti ma soltanto una dilazione nel pagamento... Bolognino ha un ruolo sovraordinato rispetto a Mangone che, come dice Venturin, era “suo uomo” ovvero il responsabile di zona». E ancora: «Michele Bolognino è il capo, Mangone lo interpella con rispetto “Compare Miche’, quando volete venire voi siete il padrone”. Sergio Bolognino riconosce la supremazia del fratello: lo informa nel dettaglio di ogni questione, gli chiede consiglio e soprattutto lo fa intervenire nei momenti cruciali e a Venturin riferisce che Michele era a capo della piramide». Una piramide che puntava ad allargare base e operatività in Veneto.
Venerdì di nuovo in aula: la parola alle difese. —
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