Corcos a Palazzo Zabarella: tutto lo charme di un’epoca

Con il ritratto mondano creò l’icona della donna moderna e nulla fu come prima. Dipinti in mostra fino al 14 dicembre a Palazzo Zabarella. L'esposizione curata da Ilaria Taddei, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, presenta oltre 100 dipinti dell’artista livornese in quella che è la più ampia monografica che gli sia mai stata dedicata

PADOVA. Per contare veramente nella storia dell’arte, un artista deve aver lasciato il segno, coltivato un talento in grado di trasformare il passato. La bravura non basta. Sino all’odierna mostra di Vittorio Corcos a Palazzo Zabarella, il pittore livornese era considerato un ottimo ritrattista tra Otto e Novecento, figlio del secolo del romanticismo e protagonista del liberty maturo, quando l’arte floreale diventò gusto diffuso, seduzione mondana al passo festante della Belle Époque. Ma Corcos fu più di questo: egli prese la tradizione del ritratto, mantenne la fedeltà figurativa ma trasformò le sembianze individuali nel ritratto di un’epoca che, essendo moderna e volendosi liberare proprio della tradizione, doveva trovare un modo inedito per rappresentarsi.

Corcos non abbandonò mai il disegno, nemmeno per il gusto di emancipare la pasta pittorica, com’era costume diffuso dopo che Impressionismo e Macchiaioli avevano fatto smottare il naturalismo. Il suo segreto fu una vista acuta che vedeva dentro e oltre il soggetto, dentro e oltre il realismo. Corcos non è Boldini, l’altro grande suo pari. Questi restituisce l’ebbrezza mondana facendo volteggiare il pennello; quegli penetra nelle segrete degli sguardi e rivela la sottile inquietudine di soggetti non mai appagati pur vivendo alla ribalta del bel mondo. Nel varco sottile della mancata corrispondenza scatta l’allarme interiore, lo scarto rivelatore che porta la verità del ritratto moderno al confine della tenuta figurativa: oltre quella linea si entra nella terra delle avanguardie che, per esprimere di più, rompono gli ormeggi del disegno.

Nato a Livorno nel 1859, Corcos si formò tra la città natale, Firenze e Napoli. Nella giovinezza conobbe il successo inebriante di Parigi, al quale rinunciò per tornare a Firenze e approdare al suo inconfondibile stile.

Livorno alla metà del secolo era un centro mercantile cosmopolita, dove le famiglie ebree, come quella di Corcos, formavano una comunità vivace che non aveva mai conosciuto ghetto. Il clima di forte rinnovamento che si respirava dopo l’Unità, aveva accentuato l’anelito alla modernità e all’emancipazione. Il giovane Vittorio apprese da un pittore locale, Giuseppe Baldini, i primi rudimenti della formazione pittorica per poi perfezionarsi all’Accademia di Firenze e a Napoli, che significava Domenico Morelli. Con questo bagaglio, reso astuto e vibrante dalla giovinezza, si recò ventenne a Parigi. Entrò nel salotto di De Nittis e nella sua cerchia d’illustri amici: Degas, Manet, Caillebotte, Zola, Edmond de Gouncourt. Apprese la lezione del romanzo naturalista che richiedeva una pittura senza pregiudizi, dove il misero valeva quanto il nobile, la stamberga quanto l’Opéra Garnier appena inaugurata. L’amicizia con De Nittis gli procurò l’accesso alla Maison Goupil: la sicurezza di tocco, il taglio subitaneo e gli abili accordi cromatici erano la terna vincente per la ditta che riproduceva i dipinti in fotocromia per riviste, calendari, pubblicità. Partecipò ai Salon parigini con tranches de vie, osterie e omnibus, descritti alla maniera del romanzo in voga, senza partecipazione emotiva.

Ma il tema nel quale non ebbe rivali e per il quale s’ispirò alla voluttà rococo di Watteau, fu quello della giovani donne gioiose: ritratti languidi, carni fiorenti, sguardi maliziosi. La fortuna gli arrise, ma quell’arte a suo dire “imbellettata e incipriata”, lo sfiancò. Nel 1886 rientrò in Italia, si sposò e si stabilì a Firenze. Consolidate professione e fama, avviò la fase del ritratto moderno di cui divenne interprete ricercato, corteggiato dal bel mondo, dalle celebrità, dall’alta borghesia e da teste coronate.

Il suo segreto? Lo rivelò a Ugo Ojetti nell’intervista del 1907 (anno fatidico delle Demoiselles d’Avignon e della klimtiana Adele Bloch-Bauer): mangiare assieme al suo soggetto, coglierne qualità e debolezze e, subito dopo, fissarne il volto con pennellate sciolte e franche. Il resto verrà da sé, nell’esecuzione che sarà molto accurata, sorretta dal disegno come negli antichi maestri, affinché l’eccesso di modernità non avesse a frantumare le figure. Il rigore che s’imponeva aveva un più libero controcanto nell’ideale della donna moderna, inquieta e appassionata. Mentre nei paesaggi marini e campestri si prendeva delle libertà pittoriche che il ritratto non consentiva.

Corcos amava in modo particolare Castiglioncello. Ed è proprio nella calma mattutina di quel tratto d’insenatura che ambientò “In lettura sul mare”: un dipinto virato sui toni freddi del bianco, permeato di una luce immota come l’aria, dominato dal silenzio enigmatico di pensieri segreti che rivela un Corcos attratto dal simbolismo, in grado di trasfigurare la fedeltà figurativa in una visione irreale carica di presagi.

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