Coronavirus, il primario di Rianimazione: «Ormai riconosco i colleghi dagli occhi»

Il dottor Fabio Baratto, direttore di Anestesia e Terapia intensiva a Schiavonia: «Non leggiamo più i cartellini sui camici, adesso basta guardarci per capire anche le nostre emozioni»
Il dottor Fabio Baratto, direttore di Anestesia e Terapia intensiva a Schiavonia
Il dottor Fabio Baratto, direttore di Anestesia e Terapia intensiva a Schiavonia

MONSELICE. «Ormai ho imparato a riconoscere i miei colleghi dagli occhi, l’unica parte del corpo che posso vedere. Non leggiamo più i cartellini sul camice, ci riconosciamo dalle emozioni che arrivano da dietro le visiere». In questa frase sta tutta la rivoluzione, organizzativa ed emotiva, che hanno dovuto vivere nell’ultimo mese e mezzo medici e infermieri della Terapia intensiva di Schiavonia. Fabio Baratto, montagnanese di 58 anni, è il direttore di Anestesia e Rianimazione ed è il responsabile della Terapia intensiva di Schiavonia, che da molti è definita «l’ultima spiaggia per combattere il virus».

Dottore, è alla guida del reparto fondamentale del Covid Hospital padovano, una struttura letteralmente rivoluzionata in pochi giorni.

«Qui prima del 21 febbraio c’erano 12 posti letto. In pochi giorni ne abbiamo allestiti 50. Sono stati reperiti in tempi record letti, ventilatori, monitori e tecnologia elettromedicale di qualità altissima. Sono state riconvertite a Terapia intensiva intere aree, dall’Unità coronarica alle sale operatorie. E il personale: sono arrivati infermieri da altri reparti, magari con poca esperienza di intensiva. In una settimana la loro professionalità ha permesso la perfetta integrazione».

L’organizzazione, stando agli ultimi numeri, regge l’emergenza.

«Dei 50 posti a disposizione, non ne occupiamo mai più di 30. Martedì scorso abbiamo dimesso il primo paziente e ora andiamo già verso la quarta dimissione. C’è una grande possibilità di spazio per ricovero, quindi ottime garanzie per eventuali altre emergenze».

Che caratteristiche ha il paziente ricoverato per Covid-19 rispetto ad altre patologie?

«Per almeno 15 giorni il coronavirus non dà tregua. Io ero abbastanza preparato a simili scenari visto che mi sono formato all’Università di Padova che era centro di riferimento per le polmoniti da H1N1. Da subito ho intuito che era una polmonite virale diversa da quelle note. L’aggressività verso i polmoni è maggiore rispetto a qualsiasi altro il virus, ma qui il vero problema è il numero di pazienti che arrivano in Terapia intensiva. A Schiavonia avevamo solitamente 1-2 ricoveri al giorno, fino a qualche giorno fa arrivavamo a 8. Proprio in fatto di preparazione e competenze, ricordo che è stata l’insistenza di una anestesista e di un infettivologo, il 20 febbraio, a richiedere il tampone sul primo contagiato di Schiavonia. Avevano capito che era una polmonite anomala: senza quell’intuizione, avremmo perso molti giorni di lotta alla malattia».

Ha condiviso la scelta di destinare un intero ospedale, quello di Schiavonia, alla cura del Covid-19?

«A livello epidemiologico non c’era scelta migliore. Capisco che questo può aver penalizzato altre patologie, ma occorre ragionare per priorità. L’Usl ha comunque provveduto a tutelare ogni tipo di paziente con una seria organizzazione a monte. Non c’era un ospedale migliore di Schiavonia per garantire il funzionamento di 50 ventilatori da terapia intensiva. Stiamo parlando di apparecchi che tirano 12 litri di ossigeno al minuto: in altre strutture, c’era il rischio di far saltare tutto».

Come si arriva in Terapia intensiva e qual è la tipologia di paziente che oggi avete in ricovero?

«L’intensiva è l’ultimo step. Si parte con l’ossigeno ad alti flussi, attraverso canule nasali. Se non basta, si passa alla ventilazione invasiva con maschere o caschi. In casi estremi si arriva alla ventilazione invasiva con l’intubazione. Qui non ci sono solo anziani: abbiamo avuto anche un 47enne. I tre dimessi hanno tutti meno di 60 anni. Ovvio che la maggioranza è di anziani, e che per loro la permanenza in questi letti è più lunga».

Voi professionisti state vivendo un mese di grandi sacrifici.

«Dal 21 febbraio, ho vissuto solo 3 giorni fuori da qui. Non abbraccio i miei figli non so da quanto tempo. Abbiamo dovuto imparare a lavorare limitati da vestizioni estreme, per ore e ore. Ormai ci riconosciamo solo dagli occhi, occhi che tradiscono emozioni, che spesso hanno la lacrima facile. Occhi di persone straordinarie».

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