Così il Coronavirus ha cambiato volto all’Hospice pediatrico di Padova

PADOVA. Il Covid 19 si è abbattuto come una furia nella routine dell’Hospice pediatrico, ma a distanza di quasi due mesi dal 21 febbraio il Centro regionale con la sua sede nell’Azienda ospedaliera di Padova e la rete di assistenza domiciliare ha dimostrato ancora una volta di saper tirare fuori il meglio di sè nelle situazioni più complesse.
Dopo due settimane di chiusura della sede, durante le quali l’assistenza è stata portata a casa di ogni paziente - quasi 200 in tutto il Veneto i minori seguiti - l’Hospice ha riaperto la sua casa-reparto con i quattro posti letto adottando misure di sicurezza più che straordinarie, vista la fragilità dei suoi pazienti.
Un lavoro immane, a tratti drammatico, ma che ha fatto scoprire e imparare tante cose: ne è convinta la professoressa Franca Benini, responsabile del Centro, un servizio dedicato ai bambini e ai ragazzi che non potranno mai guarire dalla malattia ma per i quali esistono cure e terapie per vivere al meglio il loro tempo.
Professoressa Benini, come avete reagito all’emergenza sanitaria dovuta al Covid 19?
«Il 23 febbraio abbiamo chiuso la struttura perché c’erano persone che avevano avuto contatti stretti con soggetti positivi, quindi tutti i servizi sono stati portati a casa dei pazienti, potenziando l’assistenza domiciliare che già fa parte del nostro lavoro. Direi che è stata implementata all’ennesima potenza, non senza difficoltà, perché ha incluso le diagnosi, i monitoraggi delle situazioni cliniche che nei nostri pazienti sono sempre complesse, oltre a tutta l’attività ambulatoriale».
Cos’è cambiato?
«Abbiamo iniziato a sfruttare molto di più la tecnologia e il web sia per fornire le consulenze psicologiche, sfruttando anche orari serali, sia per i ragazzi che per il supporto genitoriale. Anche dal punto di vista fisiatrico sono state registrate vere e proprie lezioni di manipolazione e di fisioterapia che le famiglie possono così vedere sul pc».
L’Hospice ha riaperto la sua sede?
«Dopo due settimane abbiamo riaperto e lavoriamo come e più di prima. I posti letto per i ricoveri sono 4 e sono sempre occupati e la lista di ingresso è lunga. È molto difficile scegliere fra le emergenze. Tutta l’attività ambulatoriale continua a essere fatta a domicilio. Nessuna delle nostre attività è rinviabile, si tratta di attività al 100% con carattere di emergenza e urgenza. Abbiamo imparato a fare le cose in maniera diversa, sapendo che non avremmo mai potuto smettere di farle. Per chi accede qui, bambini e familiari, viene eseguito il tampone ogni volta. Altre visite non sono consentite. Un sacrificio che pazienti e famiglie hanno accettato comprendendone la necessità. Deve rimanere un reparto Covid-free».
Come hanno reagito le famiglie alle novità?
«Ci dicono che per loro non è cambiato molto. Sono abituati a vivere fra mille restrizioni avendo figli immunodepressi e che necessitano di attenzioni particolari».
Una nuova normalità?
«Questa situazione ci ha imposto di ricostruire i rapporti sanitari tenendo conto di un rischio nuovo. I nostri pazienti sono fragili, una categoria a rischio anche per un semplice raffreddore. Hanno tantissimi bisogni, molte persone che necessariamente girano intorno, quindi con un rischio della diffusione del virus enorme. Abbiamo messo in campo strategie di difesa verso di loro e verso di noi per non togliere loro il diritto all’assistenza che continua a essere garantita 24 ore su 24, tutti i giorni. Ci siamo riorganizzati e dopo qualche settimana possiamo dire che siamo riusciti a rispondere ai bisogni. Le famiglie e i nostri pazienti ci hanno insegnato molto in questa fase».
Quanti addetti ha l’Hospice?
«Abbiamo 14 infermieri, quattro medici, un fisiatra, uno psicologo e un fisioterapista e i pazienti da seguire sono quasi 200 in tutto il Veneto. Anche tutto il personale viene sottoposto a tamponi periodici e siamo forniti di tutti i dispositivi di protezione sia per l’assistenza in sede sia per quella domiciliare».
Come vede il futuro?
«Non toglieremo nulla a bambini e genitori, faremo tutto ma con modalità diverse. Certo, ci sono cose che impongono la presenza, non farei mai una diagnosi a distanza, così come se un bimbo fa determinate domande devo essere presente per rispondergli e il primo incontro con la famiglia deve essere di persona. Ma molte altre cose possono essere fatte via web. Abbiamo per esempio riscontrato che in una certa fascia d’età, ai ragazzi piace di più parlare con noi via Skype. L’organizzazione è cambiata e non posso dire che oggi si stia meglio, le difficoltà sono evidenti. Ma abbiamo imparato che da situazioni difficili possiamo trovare il modo di tirare fuori le migliori risorse. Per noi non si tratta di ripartire, ma di continuare con nuove modalità».
Vi siete mai sentiti soli in questa realtà così particolare?
«Siamo sempre stati molto aiutati dalle tante associazioni che ci sono da sempre vicine e in questa fase ancora di più. Inoltre abbiamo davvero avuto tutto il supporto e la guida necessari da parte della Direzione per far fronte a questa nuova grave emergenza».
Da anni l’Hospice reclama una sede più grande. Qualche mese fa si era interessata del caso anche la presidente del senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che vi ha fatto visita. Ci sono novità?
«Purtroppo nessuna al momento. Il Covid ha bloccato tutto, ma mi auguro che passata l’emergenza questo tema torni in agenda. Ci spero molto. Del resto il Covid ci ha insegnato molte cose, a partire dal fatto che la sanità gira attorno al paziente. Nella cronicità lo sforzo deve esser rivolto verso il domicilio, quindi puntando sulla rete di servizi territoriali, che nel nostro contesto devo dire è ottima. Ma per un servizio come il nostro, anche il nucleo è fondamentale e le due settimane in cui è rimasto chiuso hanno comportato un sacrificio enorme. Quindi non posso davvero che augurarmi che il progetto di una nuova sede più ampia possa trovare al più presto una concretizzazione». —
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