Chiesa gremita per l’addio a Beppe, l’alpinista morto sotto gli occhi del figlio sulle Pale di San Martino

A San Pietro in Gu il funerale di Giuseppe Tararan. Il parroco: «Non esiste sulla terra un luogo più sacro della montagna»

Silvia Bergamin
Un momento del funerale
Un momento del funerale

Non c’era spazio giovedì 26 giugno nella chiesa di San Pietro in Gu. Non per contenere tutte le persone, ma soprattutto per contenere tutto il dolore, l’affetto e la gratitudine di una comunità piegata da un lutto che sa di montagna, di vertigini e di sogni spezzati.

In più di mille si sono stretti attorno alla bara chiara di Giuseppe Tararan, l’alpinista di 64 anni morto sabato scorso tra le sue amate pareti, nel Primiero di San Martino di Castrozza, lungo la via Albiero Dolcetta in val Canali.

Con lui c’era il figlio Alessandro (anche ieri presente al funerale con le bende per le ferite), legati non solo dalla corda d’arrampicata ma da un amore profondo, fatto di silenzi, di fatica e di quella complicità che si costruisce un appiglio alla volta. E proprio tra quelle rocce, la fatalità ha messo fine a un’esistenza che aveva fatto della montagna la sua seconda pelle.

Il mondo dell’alpinismo veneto, gli amici, i compagni del Cai, semplici cittadini e intere famiglie hanno voluto salutare per l’ultima volta un uomo che ha lasciato un segno ben oltre le cime conquistate. Tararan non era solo un istruttore regionale e accademico del Cai, titoli guadagnati con impegno e imprese indimenticabili, ma era soprattutto un trascinatore, un punto di riferimento per generazioni di giovani alpinisti.

Lo hanno ricordato i colleghi della scuola di alpinismo e scialpinismo Carpella e del Cai di Cittadella: «Beppe era una grande presenza, sempre disponibile e capace di affascinare con la sua ironia e i suoi racconti. Era tra i più anziani, sì, ma dentro era giovane ed entusiasta di tutto, un vero trascinatore, sempre con il sorriso sulle labbra. Abbiamo sempre ammirato il suo alpinismo, ma ancora di più la sua umanità, il suo rendersi disponibile agli altri per trasmettere ciò che tanto amava».

Dopo una vita da artigiano nel settore metalmeccanico, Giuseppe si era finalmente potuto dedicare anima e corpo alla sua più grande passione: la montagna. Lì aveva trovato non solo sfida, ma anche pace e senso di comunità. Lo ha sottolineato anche don Guido Bottega, durante l’omelia: «Non esiste su questa terra un luogo più sacro. Gli uomini di tutti i tempi, di tutte le culture, hanno sempre pensato che la dimora di Dio fosse la montagna, per questo lo hanno chiamato l’Altissimo. È un mistero affascinante e tremendo, lo specchio di quello che è il mistero di Dio: bello, grande, che ti incute timore».

Nel silenzio carico di commozione è risuonato l’organo suonato dal maestro Bepi De Marzi, che ha dedicato al suo amico il “Signore delle cime”, il canto che accompagna da sempre chi ama le montagne ma, inevitabilmente, ne conosce anche il prezzo più alto.

«Ottant’anni fa», ha ricordato De Marzi, «due alpinisti veneti morirono sulla parete nord dell’Eiger. Il vescovo di Vicenza disse: sono rimasti nell’abbraccio del Signore. Così anche Giuseppe è rimasto nell’abbraccio del Signore, e oggi canteremo perché faccia venire neve autentica sulle nostre campagne e montagne, che tanto ne hanno bisogno, lui che aveva un cuore autentico».

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