Il bandito poeta, che aveva scritto anche una lettera a papa Benedetto

Antonio Floris era un poeta prima ancora che un latitante. Tanto che Tonino, così lo chiamavano tutti nella sua Desulo, tra le montagne care a Montanaru, era considerato un bandito intellettuale. Uno...
BARON - AGENZIA BIANCHI - PADOVA - OMICIDIO FLORIS ALLA COMUNITA' OASI
BARON - AGENZIA BIANCHI - PADOVA - OMICIDIO FLORIS ALLA COMUNITA' OASI

Antonio Floris era un poeta prima ancora che un latitante. Tanto che Tonino, così lo chiamavano tutti nella sua Desulo, tra le montagne care a Montanaru, era considerato un bandito intellettuale. Uno con la passione innata per la poesia estemporanea in sardo come pure per la poesia “a tavolino”, per i libri in genere e per la scrittura. Passioni coltivate anche nella sua vita da detenuto, al Due Palazzi di Padova, in particolare, dove era anche entrato a far parte della redazione di “Ristretti orizzonti”, il più autorevole periodico di informazione sul pianeta carcere in Italia. Diversi suoi articoli trattavano delle questioni legate ai delitti e alle pene, sul sovraffollamento come pure sui costi del sistema penitenziario. Nel 2011 aveva fatto il giro delle carceri italiane una sua lettera a papa Benedetto XVI: «Ci serve la voce della Chiesa – sottolineava Floris – che dica in modo forte e chiaro che le carceri in queste condizioni non rispettano la dignità delle persone». Eppure, forse proprio per questa sua capacità di analisi critica, Tonino Floris era considerato un detenuto modello. Sempre pronto alla battuta e sempre pronto a scrivere, a mettere nero su bianco proprio come faceva anche quando era ancora latitante, in fuga dall’accusa di due tentati omicidi che poi lo hanno portato in cella. Allora, primula senza patria, era riuscito persino ad inventare un alfabeto tutto suo, un codice personalissimo, un vero e proprio sistema crittografico che ha poi fatto impazzire gli inquirenti che lo arrestarono nel 1996 a Elmas, alle porte di Cagliari. È lì che finì la sua latitanza. Nella taschedda che portava in spalla, gli trovarono un diario zeppo di numeri e di strani simboli. Che decifrati, tra l’altro, parlavano in sardo stretto, comprensibile soltanto ai sardi, dunque. Durante il processo celebrato a Oristano, i giudici del tribunale dovettero scomodare anche il professor Giulio Paulis, docente di glottologia e linguistica dell’Università degli studi di Cagliari. I magistrati gli affidarono l’incarico di tradurre il diario crittografo scritto da Antonio Floris nella sua fuga dae sa zustissia. Diario contenente appunti, pensieri. Scritto nei quattro anni di latitanza in una lingua del tutto nuova, in sardo e basata sulle sillabe e su alcuni riferimenti astronomici. Lì, in quelle paginette, erano annotate i momenti più salienti del periodo trascorso alla macchia, addirittura con accenni ad alcuni incontri galanti.

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