Il pediatra tra i bimbi del mondo
Stefano Del Torso: dall'ambulatorio all'Arcella alle missioni in Africa e India

STEFANO DEL TORSO Il pediatra padovano vaccina un bimbo straniero Del Torso ha fondato e presiede la associazione Pediatri di famiglia per i bambini del mondo, la cui sede è a Padova
«La pediatria di famiglia in Italia? La migliore al mondo. Lo dico per la mia esperienza di unico pediatra di famiglia presente, tra i 7.500 iscritti alla nostra federazione, all'interno della Uems (medici specialisti dell'Unione Europea)». La mattina di visite è terminata e la sala d'attesa del suo ambulatorio all'Arcella è simile a una stanza giochi vuota e silenziosa. Stefano Del Torso racconta con passione il mondo dei bambini, compresi quelli del Terzo mondo.
Addirittura la migliore?
«In Europa la maggior parte dei Paesi, per mancanza di fondi segue i più piccoli con un'assistenza non specialistica, fornita talvolta da infermieri professionali. In Germania provvedono le assicurazioni, ma anche nei paesi nordici socialmente avanzati non si trova il pediatra se non in ospedale».
Nessuna critica all'Italia, dunque?
«Tutto è migliorabile. Una parte delle risorse destinate agli ospedali dovrebbe essere dirottata verso la medicina territoriale».
Lei si occupa anche di bambini in Paesi lontani...
«Ho concretizzato una vecchia aspirazione: come trasferire le conoscenze scientifiche, l'organizzazione e la capacità gestionale apprese, a favore di altri bambini ed altri colleghi. Nella vita si deve restituire alla collettività qualcosa di quanto abbiamo imparato. Così mi ritrovo oggi presidente dell'associazione italiana «Pediatri di famiglia per i bambini del mondo» (Childcare worldwide-Italia), con sede a Padova in piazza Garibaldi».
Quand'è sorta l'associazione?
«Nel 2005, all'inizio con una quindicina di pediatri della federazione veneta e piemontese. Con l'idea di recarci nei Paesi in via di sviluppo individuando i bisogni «loro» e non quelli che noi ritenevamo tali. Nel 2006 abbiamo iniziato a progettare interventi di promozione della salute, collaborando con strutture pubbliche o con Ong riconosciute».
Il primo viaggio?
Nel 2007 a San Vicente, isola di Capoverde; dove, collaborando anche con Cbm Italia (Christian blind mission), presieduta dall'oculista padovano Mario Angi, abbiamo visitato 2000 bambini con test di screening per la vista ed il linguaggio e formato personale. Nel 2008 è stata la volta del villaggio orfanatrofio «Daddy's home» in Andhra Pradesh, una delle regioni più povere dell'India. Lì la Ong Care Share ospita in strutture moderne più di 1000 bambini, raccolti dal governo indiano dai treni in transito nelle stazioni ferroviarie o orfani di genitori morti per Aids, Tbc, incidenti stradali. Senza contare i 4000 del vicino villaggio. In tre anni abbiamo visitato circa 7000 pazienti da 0 a 16 anni, filtrando moltissime patologie; ne abbiamo vaccinati più di 5000; fatto corsi di formazione al personale di villaggio e scuola; creato un database sanitario per gli operatori del centro; aggiornato la farmacia e l'acquisto dei materiali. Siamo anche riusciti a rompere il tabù delle visite ginecologiche, che in India si limitano ad una mano sulla pancia della donna. Partendo da lezioni teoriche, le abbiamo convinte a farsi visitare e a sottoporsi al pap-test da un ginecologo italiano. Ma dolori mestruali e menopausa non costituiscono là dei problemi, essendo la sofferenza vissuta come parte della vita. Anche per i bambini è così: il corso della natura è rispettato ed i ritmi di vita, la cultura, l'offerta di medici e medicine sono diversi dai nostri».
Quanto tempo dedica all'associazione?
«Siamo 50 soci italiani, impegnati due per volta in missione dai 15 ai 30 giorni l'anno. A casa, un'ora al giorno se ne va in contatti di vario tipo. Eppure... si parte credendo di dare, invece quello che si riceve è molto di più».
La maggior differenza tra un bambino del terzo mondo ed uno occidentale?
L'alimentazione. Che nei paesi sottosviluppati è povera ed ipocalorica, per cui è frequente l'anemia per mancanza di vitamine e sali minerali. Mentre in tutti i paesi industrializzati cresce la extra large syndrome: l'obesità infantile, che in Italia tocca punte del 25%. Come pediatra cerco di prevenirla sin dall'allattamento, perchè sono i bambini floridi fin dai primi mesi i più a rischio. A causarla sono al 90% iper-alimentazione e poco moto».
La sua opinione sul piatto unico nelle mense scolastiche di Padova?
«Si tratta di trovare un equilibrio qualitativo. Di certo non quantitativo, mettendo assieme tutto ciò che i bambini mangiano nei pasti della giornata. Quelli di padre Orfeo a Capoverde sopravvivevano con le poche uova delle sue galline ed un po' di verdura al giorno...».
Com'è il bambino italiano medio?
Sano, vaccinato, unico e prezioso. Esposto ai rischi del nostro tempo: ansia, ritmi di lavoro stressanti in famiglia, consumismo. Essendo la società così strutturata l'importante è capire quando si va oltre. Obesità e disturbi comportamentali sono le patologie più diffuse nell'infanzia. Mentre bimbi sopravvissuti a malattie congenite e croniche vanno seguiti».
Il suo parere sul precoce bullismo?
«Non sottovaluto la violenza contagiosa della società. Ma i mass media evidenziano i lati negativi della gioventù, lasciando in ombra quelli buoni, il volontariato che svolgono. Come padre di due maschi e nonno di un nipotino, guardo con fiducia ai giovani».
Troppo permissive le mamme italiane?
«Certo, la genitorialità prevede dei no».
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