Il sociologo Pace perplesso «Uso politico-ideologico»

SOCIOLOGO. Enzo Pace
PADOVA.
Perplesso, dissenziente, preoccupato. Enzo Pace, professore ordinario della nostra Università, è Direttore del Dipartimento di Sociologia e del Centro Interdipartimentale di ricerca e servizi in studi interculturali. Va dritto al punto: «Più che perplesso, sarei perfino intellettualmente ostile di fronte alla politica che impone simboli religiosi» commenta la notizia di palazzo santo Stefano. Pace è Visiting professor all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, dopo aver ricoperto il ruolo di presidente dell'International Society for the Sociology of Religion. Fa parte del comitato di valutazione dell'Agence Nationale de la Recherche en France. Nel 2008 per i tipi del Mulino ha pubblicato «Raccontare Dio. La religione come comunicazione».
La Provincia distribuisce bandiere e crocifissi. I simboli tornano a dividere?
«L'iniziativa non può che lasciare perplessi, come ogni volta in cui la politica imponga un simbolo religioso. Io sarei più per la "conquista" del valore simbolico, soprattutto se c'entrano le scuole e l'aspetto educativo in aula».
Non è così che si tutela l'identità cristiana?
«E' un po' come la distribuzione della Bibbia d'autorità, dall'alto, sempre per via politica. Gesti che sono più che altro pensati in funzione delle strategie di mercato politico. Per avere più consenso e credibilità sull'idea che, oggi, la politica sia chiamata a salvare l'identità cristiana minacciate. In realtà, i cristiani da soli sanno benissimo affermare il valore della loro fede in ben altro modo».
Dunque, come si dovrebbe procedere?
«Non va certo bene, in una società popolata da chi crede in altro modo, esibire simboli. Serve piuttosto un processo educativo dal basso. Anche perché, dal punto di vista della laicità dello Stato, la questione è stata chiusa dalla recente sentenza della Corte Europea. Ogni Stato può richiamarsi a valori condivisi ed il cristianesimo, entro certi limiti, lo è».
Professore, tutto un "gioco" politico?
«Mi lascia critico il fatto che lo spazio pubblico diventi terreno di scontro ideologico con i crocifissi. Anche in altri Paesi dell'Europa, pur di marcare la loro differenza, alcuni partiti pensano sia più utile brandire il simbolo religioso per affermare la propria particolarità».
Magari, funziona con i giovani...
«Non vedo il... guadagno. Le nuove generazioni sono più aperte e duttili. Non hanno pregiudizi ideologici. I tempi sono ben cambiati e i giovani lo percepiscono. E' inutile caricare di significati i simboli religiosi: i giovani distinguono il genuino interesse religioso dagli interessi della politica».
Forse allora i crocifissi e le Bibbie servono nei confronti dell'«invasione islamica»?
«Starei più attento. C'è da riflettere sulle conseguenze. Non è proprio il massimo la tendenza a politicizzare la religione. Altrove, nel mondo, si è capito che così finisce a botte...».
I barconi di Lampedusa alimentano questo genere di paura, no?
«Sull'islam basta un po' di onestà intellettuale. Quante sono le persone in Europa cui automaticamente si attribuisce la fede musulmana? Il 4% della popolazione europea. E in Italia su 100 immigrati il 30% proviene da Paesi dove si presume si sia islamici. Ma chi viene dall'Egitto potrebbe essere un cristiano copto, come i nigeriani o i filippini».
Per concludere: meglio evitare gli stereotipi?
«Guardi, giovedì ospitiamo in Facoltà i ragazzi tunisini della "rivoluzione dei gelsomini". Vengono a testimoniare proprio come la religione non c'entra con questa rivolta. Nel sud del Mediterraneo una generazione che non ha più un'identità religiosa radicale. Ha capito benissimo che questa deriva è fallita. Il punto resta aperto in società democratiche come la nostra. Società senza, per fortuna, religione di Stato».
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