Il Veneto sotto le bombe ma la riscossa era vicina

Gli orrori della guerra si fecero pesantemente sentire nel Veneto dal dicembre 1943. Ben due incursioni aeree si abbatterono su Padova in quel mese. Furono colpite la chiesa degli Eremitani con il famoso ciclo del Mantenga – ciclo evidentemente irrecuperabile – , il Duomo, la piazza del Capitaniato e tutta una serie di edifici certamente di minor valore storico ma che erano le case dei cittadini costretti tumultuosamente a sfollare, se non rimasti sotto le macerie, mentre gli ospedali si riempivano di feriti e di mutilati.
Poi fu la volta di Treviso, praticamente rasa al suolo. Furono colpiti il Palazzo dei 300, la Loggia dei Cavalieri, Ca’ da Noal, e in città si contarono circa 1600 morti, mentre la massa dei fuggiaschi cercava riparo nelle campagne che non sempre, va detto, si rivelarono accoglienti in particolare con quanti non fossero in grado di pagare i pur precari alloggi. Anche Mestre, facendo gli aerei centro sulla stazione, nodo ferroviario di così grande importanza, venne sconvolta nel suo assetto urbano, mentre paradossalmente le fabbriche di Marghera rimasero pressoché indenni, al punto che un documento della Camera di Commercio steso a pochi giorni dalla conclusione delle ostilità dichiarò che, per quanto concerneva le strutture edilizie, gli impianti avrebbero potuto riprendere a funzionare entro una quindicina di giorni.
A Belluno fu colpito anche il ponte sul Piave, quello attraverso il quale si accedeva alla città, e lo si dovette sostituire con una passerella. Solo Venezia rimase indenne grazie alla sua unicità, ma su Venezia gravò l’orrore della fame per le intrinseche difficoltà di rifornimento attraverso il braccio di laguna che la divide dalla terraferma. Ed era un problema gravissimo, perché Venezia era una città sovraffollata, ivi essendo convenuti alcuni ministeri della neonata Repubblica di Mussolini, nonché un certo numero di sfollati, naturalmente danarosi, che speravano con ragione di trovarvi riparo. Ovviamente la fame non era un problema solo di Venezia perché il razionamento dei generi alimentari, di abbigliamento e per l’igiene era proprio di tutte le città. Si sopperiva con il mercato nero, ma esso costituiva una pesante discriminazione di classe perché solo i più abbienti potevano accedervi.
A Treviso fu il vescovo Antonio Maniero a organizzare una mensa per i poveri alla quale accedevano circa 800 persone al giorno. Cosicché, se la campagna produceva quanto serviva alle città, è evidente come il binomio città-campagna si sia invertito a favore del secondo termine, anche perché i molti renitenti alla leva vi cercarono rifugio. Se i Meneghetti, i Marchesi e i Trentin cercarono immediatamente di dar vita a una guida politica per avviare la Resistenza, coadiuvati da ex militari rimasti fedeli al giuramento prestato al re e dai quadri dei partiti politici che faticosamente stavano rinascendo, l’inverno 1943-1944 fu comunque per la popolazione una stagione di rassegnazione e di apatia, rotta soltanto da qualche limitato atto di sabotaggio.
Furono gli scioperi operai del marzo 1944, la renitenza alla leva, l’oggettivo intento di partigiani e contadini a non consegnare il grano agli ammassi, a provocare la grande estate partigiana, favorita anche dalla convinzione generale che la guerra si sarebbe conclusa entro l’anno. In quei mesi le formazioni partigiane crebbero in quantità e le azioni belliche in qualità. Il 15 agosto 1944 segnò la fine della speranza di una rapida conclusione del conflitto in quanto, per effettuare lo sbarco in Provenza, gli alleati trassero dal fronte italiano la quantità di truppe che sarebbe stata necessaria per superare la linea gotica. Si ebbero così i grandi rastrellamenti in montagna e in pianura ove molte formazioni erano scese, e ai rastrellamenti si accompagnarono grandi rappresaglie che colpirono particolarmente la popolazione civile.
Dai 31 impiccati di Bassano del Grappa ai 42 fucilati di Villamarzana nei pressi di Rovigo, dal desolato quartier del Piave in cui molti paesi furono incendiati alla valle del Biois, in particolare a Caviola ove si contarono 16 morti, furono le popolazioni a subire le maggiori conseguenze in vite umane e negli averi, sotto forma di requisizione del bestiame e di incendio delle abitazioni. L’arrivo nel Veneto di un certo numero di fascisti profughi dall’Italia già liberata, fascisti incattiviti perché avevano bruciato ogni vascello alle loro spalle, acutizzò in autunno l’asprezza della lotta.
Il timore delle rappresaglie aveva staccato almeno momentaneamente il mondo rurale dal movimento partigiano, mentre l’arrivo di questi fascisti aveva aumentato il tasso delle rappresaglie medesime. Se a Treviso si torturava nelle celle ricavate dal seminterrato del collegio Pio X, a Padova la banda Carità aveva trasformato Palazzo Giusti in un luogo di terrore. D’altronde anche a Venezia e in provincia non si agiva diversamente, mentre a Belluno si ricorda ancora la figura del famigerato maresciallo Karl.
La morte in seguito ai bombardamenti era almeno confortata dai riti funebri, la morte per rappresaglia era invece una morte ostentata, perché dalla vista dei cadaveri i cittadini traessero ammonimento. Mentre avanzava l’inverno e permaneva l’angoscia prodotta dalla fame, dai bombardamenti, dal timore del futuro, tedeschi e fascisti, chiusi nelle città, festeggiarono alla loro maniera l’ultimo atto perché le formazioni partigiane ormai le stringevano d’assedio. Si sentiva che la Liberazione si approssimava, che la primavera sarebbe stata quella decisiva. Purtroppo si avvicinava anche la resa dei conti da parte dei partigiani, resa dei conti che fu in alcuni casi crudele e feroce.
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